La pazza gioia: un confronto con lo psichiatra

Il nuovo film di Paolo Virzì uscito il 17 maggio è già un successo.

la-pazza-gioia-locandinaIl regista di Ovosodo confeziona un atipico road movie con due particolari Thelma e  Louise in cerca della felicità «nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili».

La pazza gioia è sicuramente un film dal ritmo vincente, dove si alternano le strade del pianto e del riso con grande abilità. Ambientato nella soleggiata Toscana tra Pistoia, Lucca, Viareggio e Livorno, La pazza gioia è un film che tocca le corde di un tema scottante: i disturbi psichiatrici. Eppure non è un film che documenta la malattia mentale in tutte le sue gradazioni, le sue contraddizioni, perché spesso nella realtà come recita l’infermiera nel magistrale Mommy di Xavier Dolan: «Non basta amare qualcuno per salvarlo. L’amore non c’entra niente in questo. Purtroppo». Eppure il merito di Virzì, la sua forza è proprio questa leggerezza che porta lo spettatore ad accettare la possibilità di essere «nati tristi».

Il dottor Matteo Pacini, psichiatra, psicoterapeuta e docente di Medicina delle dipendenze offre la possibilità di riflettere ulteriormente sui problemi esposti da Virzì, dando voce a un punto di vista spesso distante da quello del regista: il parere di un medico della scuola psichiatrica pisana.

Innanzitutto quando si può parlare di Disturbo mentale?

«Quando una configurazione mentale, cioè cerebrale, impedisce di seguire con soddisfazione le proprie direzioni di vita, i propri progetti e i propri scopi.  Alcune persone sono consapevoli dei meccanismi che ostacolano la propria libertà di vivere ed esprimersi, altre invece no, come per esempio chi soffre di psicosi. Ci sono anche casi di persone che hanno, formalmente, gli stessi sintomi, di solito in maniera meno pronunciata e invasiva, ma non ne soffrono.  Altri che non ne soffrono perché i limiti non sono poi così importanti,  e si adattano ad altri scopi e altre direzioni. Tecnicamente in senso medico il disturbo è qualcosa che è fonte di malessere, a prescindere che la persona ne conosca o meno il meccanismo».

Le due protagoniste sono affette da disturbi psichiatrici molto invalidanti. Beatrice ha il disturbo bipolare con atteggiamenti maniacale, è eccentrica, mitomane; mentre Donatella soffre di depressione maggiore con tratti borderline. Virzì sembra voler rappresentare due aspetti importanti della malattia psichiatrica. Nel primo caso la malattia è descritta come biologica che porta l’individuo a distruggere la propria esistenza. Beatrice sperpera il patrimonio della sua famiglia, si lega ad un truffatore. Mentre Donatella ha una vita difficile sin dall’infanzia. Una madre inaffidabile, un padre assente, che ricorda con vistosi tatuaggi sul corpo e una canzone di Gino Paoli, e un partner crudele portano la ragazza a comportamenti suicidari e pericolosi. In questo caso sembra che la malattia mentale sia l’inevitabile decorso di una vita molto dura. Può il disturbo mentale essere la sola conseguenza di un vissuto difficile?

«Innanzitutto quelli delle due protagoniste sono due diagnosi molto affini, sostanzialmente due sottotipi di bipolarismo. Sono rappresentate separatamente le due componenti interna ed esterna; in realtà nel disturbo bipolare la componente interna rende anche più suscettibili all’esterno. Una mania rende più eccitabili oltre che più eccitati, così come una instabilità emotiva di fondo rende più suscettibili a qualunque evento in maniera destabilizzante. In entrambi i casi non c’è elasticità, la reazione è stereotipata secondo le leggi del disturbo. Il ruolo degli eventi esterni è tutt’oggi non definito. Si sa una vita con certi eventi si associa a disturbi più frequenti, ma la questione è anche che spesso sono coinvolti familiari che si portano dietro caratteristiche cerebrali non neutre, già su quella linea. Una persona ansiosa cresce tale perché educata ad aver paura o semplicemente perché eredita il presupposto strutturale dell’ansia, così come per il resto del corpo. Sul piano terapeutico si tende a lavorare per sindromi, e non per cause, a meno che non si conoscano dei canali precisi tra causa e scelta della terapia».

In una delle scene più toccanti del film, Donatella racconta di essere «nata triste».  Quando un disturbo mentale può avere il proprio  esordio? E come si manifesta?

«L’umore inizia ad essere evidente nei primi anni di vita, e le depressioni infantili sono frequenti, così come anche i suicidi non sono affatto rari in quella fascia di età. Spesso si sentono pazienti che raccontano di ambienti depressi o depressogeni mentre verosimilmente hanno per primi loro attraversato fasi depressive in cui sentivano e leggevano la realtà in quella chiave. Del resto poi chi appare triste e depresso suscita negli altri reazioni di diffidenza, di preoccupazione, di rifiuto a volte, perché gli altri, specie i familiari, si sentono impotenti, esclusi, o incolpati di qualcosa, o loro stessi vivono il figlio depresso come una delusione sul piano affettivo».

In una delle sequenze iniziali del film le due donne mostrano una larga conoscenza dei farmaci psichiatrici. Nell’era di internet non c’è il rischio che molti pazienti  ricorrano all’autodiagnosi? O al rifiuto di determinati farmaci per aver letto gli effetti collaterali o per un dannoso passaparola con altre persone? Qual è il giusto approccio alla cura farmacologica?

«Scrissi proprio su questo un articolo disponibile su internet, che in pratica dice “dimmi la diagnosi che ti faresti da solo e ti dico cosa potresti avere realmente”. La tendenza all’autodiagnosi c’è, ma anche questa segue delle leggi. Ci sono alcune diagnosi “gradite” ed altre rifiutate, alcune che si crede di comprendere, magari sbagliando, altre che rimangono oscure. Soprattutto ci sono persone che tendono a farsi autodiagnosi multiple, o di nicchia, di solito approdando a degli autentici paradossi, del tipo potrei essere paranoico».

Per la scrittura del film, Paolo Virzì e Francesca Archibugi sono entrati in  contatto con il mondo delle comunità psichiatriche: con personale medico e pazienti. Al punto da coinvolgere questi ultimi nelle riprese del film. Virzì ha deciso di realizzare un film dalla parte dei malati psichiatrici, in grado di rivelare l’umanità che si cela dietro comportamenti inspiegabili, folli, eccentrici e drammatici. Ma ha rappresentato anche un personale medico che lotta a fianco dei suoi pazienti, in grado di vederne prima l’umanità e poi la malattia mentale. Virzì non cita esplicitamente Franco Basaglia ma è evidente che accoglie il suo pensiero, predilige una visione più fenomenologica anziché positivista. Cosa ne pensa della sinergia tra pazienti e operatori descritta da Virzì? La pazza gioia riesce a rappresentare questo mondo o a suo parere ne fa una rappresentazione troppo idilliaca? O troppo superficiale e stereotipata della malattia mentale?

«Io trovo che il difetto dei film che raccontano la psichiatria (non dico quelli con personaggi psichiatrici, che sono molti di più) abbiano lo stesso limite. Non raccontano la malattia fino in fondo, cercano di raccontare di una malattia che alla fine in qualche modo trova una sua strada, e di solito attraverso rapporti umani o scelte di vita che potevano sembrare folli. Non che debba invece finire male nella realtà, anzi, ma certamente il grande assente della narrazione della psichiatria in questi film è la tecnica medica, le cure vere, ciò che le cure fanno alla malattia e che la malattia “di per sé” fa. Credo che appunto questo dipenda da un’adesione forse emotiva al pensiero Basagliano, che non condivido, poiché basato sulla negazione della malattia mentale e sull’idea che una rete sociale riesca a accogliere al suo interno le persone senza doverle etichettare come malati e curarli, ma “gestirli” soltanto. Inoltre, l’errore fondamentale dell’organizzazione sanitaria che ne è derivata è pensare che i malati tendano alle cure, se umanamente benvoluti e agevolati, e invece non è così. I rapporti umani sono auspicabili in ogni contesto medico, ma non per questo il colesterolo scende o gli infarti non si verificano. E così è anche per le malattie mentali. Non che non vi siano elementi propri delle reali comunità terapeutiche, quel che intendo è che proprio questi elementi, questo linguaggio tecnico riconoscibile, ha una matrice che è da rivedere. Oltretutto, si tratta di interventi con poche fondamenta di tipo scientifico, quindi il termine di terapie spesso è improprio o abusato. Sono terapie perché gestite all’interno del sistema sanitario, e non il contrario, come sarebbe logico. Il problema è che questo la popolazione non lo ha molto chiaro».

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fonte: http://www.01distribution.it

Sempre facendo riferimento a Basaglia, Virzì rappresenta le difficoltà di soffrire di un disturbo psichiatrico invalidante da un punto di vista soprattutto sociale, non unicamente individuale. La società nel 2016 ha ancora pregiudizi nei confronti di persone con malattie psichiatriche o è pronta ad accoglierle?

«Non saprei scindere l’individuale dal sociale, se troviamo tutti gratificazione e realizzazione come individui che hanno rapporti o devono averli per raggiungere scopi, anche se sono scopi individuali. La società è rispecchiata nei film di questo tipo, ecco si potrebbe dire che più che la psichiatria la rappresentazione è quella dell’opinione comune: da una parte dramma e diffidenza, dall’altra ingenuità e speranza che le malattie non siano quello che sembrano. Il malato spesso si trova fluttuante in questo vuoto, da una parte un muro (magari anche giustificato) da parte di chi non vuole averci a che fare o ne è stato danneggiato; dall’altra buoni sentimenti, aiuti, risorse, ma niente di efficace sulla malattia. Ci sono alcune comunità, tutt’oggi, e magari sono anche la maggioranza, in cui il programma incoraggia la sospensione delle cure mediche, o non le fa iniziare, o comunque le limita (basti pensare a molte comunità per tossicodipendenti in cui si accede solo togliendo prima il metadone, principale strumenti riabilitativo). Ricordo di aver assistito a una lezione in cui un collega si vantava come nella sua comunità i successi terapeutici si misurassero in base a quanti farmaci erano stati tolti all’uscita rispetto all’ingresso».

Pur ambientando il suo film in Toscana, Paolo Virzì non inserisce Pisa tra le location del film. Eppure la menziona nella tragica sequenza all’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario associandola alla terapia elettroconvulsivante, a cui volge uno sguardo critico. Quanto questa fama danneggia il vostro lavoro? Se esistono pregiudizi sui malati psichiatrici ne esistono numerosi anche sulla psichiatria. Come sfatare questo immaginario?

«Pisa è conosciuta come uno dei centri della psichiatria “organicista”. Questo termine per me non ha significato, semmai mi lascia perplesso che esista una psichiatria che non considera i cervelli come tali. Detto questo, tra i meriti di Pisa c’è anche quello di essere uno dei centri in cui si può praticare la terapia elettroconvulsivante. Questa è ancora oggi tra le terapie più efficaci e molto poco distribuita sul territorio. Un altro argomento sono gli eccessi farmacologici, ma anche qui c’è da chiarire che invece l’abuso farmacologico più diffuso è l’impiego massiccio di neurolettici e ansiolitici per supplire alla carenza di strutture di ricovero a lungo termine, o facilitare la dimissione dai reparti perché così vogliono le esigenze aziendali. Non sono limiti, questi, determinati da una visione organicistica della psichiatria, semmai dal suo opposto, e cioè dalla pretesa che il malato si adegui all’ideologia che lo vuole guarire da solo, nell’ambiente, con le buone intenzioni proprie e degli altri. Scelsi di fare lo psichiatra perché la psichiatria era impostata come una branca della medicina, convinto da una delle prime lezioni in cui il professore esordì con la diapositiva dal titolo “il cervello è l’organo della mente”. In alcune aree d’Italia non è così, e se avessi studiato in un’altra sede forse non avrei fatto questa scelta».

Lo stretto legame tra le due protagoniste nella loro follia si rivela di supporto per entrambe. Potrebbe essere possibile in quella realtà o l’amicizia tra due persone che soffrono di disturbi psichiatrici così invalidanti può essere altamente distruttiva?

«I rapporti umani sono più che possibili anche tra persone con gravi malattie mentali, così come queste hanno da comunicare sicuramente molto a livello umano sia ai medici che alla società. Il problema è che questo non ha, purtroppo, a che vedere con la malattia. In generale le malattie minano i rapporti, li rendono meno liberi, fanno sì che le persone facciano danni con la convinzione di fare del bene, o viceversa che sviluppino odio e rancore per idee gratuite sugli altri. Le amicizie strette in ospedale, o in comunità, appartengono alla sfera umana e personale. Non è qualcosa che si possa disegnare a tavolino come uno strumento terapeutico. Può essere una soluzione narrativa, ma quel che si riesce a raccontare bene non va scambiato per la realtà».

Francesca Lampredi

 

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