Era il 1960 quando uscì nelle sale cinematografiche uno dei più grandi capolavori di sempre: il thriller Psycho, diretto da Alfred Hitchcock. Da sempre uno dei suoi più grandi ammiratori, Gus Van Sant nel 1998 decide di ricreare il capolavoro hitchockiano in maniera completamente innovativa: un remake frame-by-frame, fotogramma per fotogramma, il regista ricostruisce passo per passo lo scenario conosciuto nel 1960. Dai titoli di testa, alla musica, ai dialoghi, sino alla tecnicità pura della regia, Van Sant ripercorre l’omicidio di Marion Crane e il disturbo psicologico di Norman Bates.
Hitchcock è da sempre stato per Gus Van Sant una delle più grandi ispirazioni, dai primissimi film come Mala Noche (1985) o il capolavoro Belli e Dannati (1991), sino alla trilogia della morte.
La scelta di riproporre il cinema hitchockiano non è casuale. Questa “nuova” versione di Psycho, altro non è che una revisione in ambito tecnico. Presenta dei colori vivi, accesi tipici della cultura Pop Art anni ’70, altra grande influenza per il regista di Portland. Una particolare tecnica pittorica resa cinematografica attraverso l’uso della fotografia e una dettagliata scelta costumista. Ciò che prima era in bianco e nero, ora ci risulta vero, quasi palpabile. La famosa scena dell’omicidio di Marion sotto la doccia è il perfetto esempio di utilizzo del colore e del contrasto. Percorrendo la carriera di Van Sant riscopriamo in maniera esplicita l’influenza di questa corrente artistica anche nel film premiato a Cannes con la palma d’oro: Elephant.
La direzione degli attori è stata altrettanto precisa: Van Sant difatti ripropone agli attori gli stessi movimenti, sguardi ed intenzioni su cui lavorarono i protagonisti Janet Leigh (Marion Crane), Anthony Perkins (Norman Bates) e Vera Miles (Lila Crane). Inoltre, i dialoghi originali non hanno subito grosse variazioni di testo e/o linguaggio, ma sono rimasti pressoché identici. Van Sant, in ogni caso, trattandosi di un remake diverso dai soliti prodotti, decide di introdurre dei particolari tocchi registici personali. Salta subito all’orecchio l’insistenza ripetitiva del motivetto della colonna sonora, da Hitchcock utilizzato anche quasi come avvertimento per il pubblico, ora diventa quasi onnipresente in molte più situazioni rispetto all’originale. Van Sant ha sempre posto una certa considerazione nell’utilizzo della musica, se pensiamo al bivalente significato donato al brano Per Elisa di Beethowen nel già sopracitato Elephant. Ma sicuramente più facili da notare sono quei piccoli fotogrammi in più che introduce in maniera del tutto personale. Rimanendo sempre nell’esempio dell’omicidio sotto la doccia, non appena Norman sta per dare la prima coltellata a seguito dell’urlo della povera Marion, in questa nuova visione troviamo dei frame che mostrano un cielo in tempesta, con pioggia e lampi, come a sottolineare la drammaticità della scena. Il cielo e le nuvole sono sempre state uno strumento di forte commento nei film vansantiani: cieli imponenti, maestosi, così grandi da farci sentire minuscoli in questo mondo; e queste nuvole in continuo spostamento a segnalare una certa “instabilità”.
In conclusione, nel 1998 Van Sant ha cercato di far rivivere le stesse emozioni che riuscì a trasmettere Hitchcock nel 1960, introducendo però delle proprie caratteristiche registiche come a voler mettere la propria firma attraverso lo stile personale che è riuscito a costruirsi grazie anche agli insegnamenti indiretti del maestro.
Lorenzo Talotti
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