Carmina Burana, la voce della disobbedienza

Carmina Burana è un titolo che riporta la mente del lettore alle sensazioni di magniloquenza e monumentalità dell’omonima cantata scenica composta da Carl Orff tra il 1935 e il 1936, opera che ha sicuramente giovato alla fama e alla diffusione dei Carmina originali, quelli contenuti nel Codex Latinus Monacensis 4660.

Il CLM 4660, noto anche come Codex Buranus, è una grande silloge di canti medievali la cui ultima residenza nota è l’abbazia di Benediktbeuren (in latino Bura Sancti Benedicti). La biblioteca dell’abbazia fu poi smembrata a causa della secolarizzazione dell’area nel 1803 portata dal trattato di Campoformio e il CLM 4660 passò alla Biblioteca Statale di Monaco. Questa atipica raccolta affascinò subito molti studiosi che ne pubblicarono degli estratti, ma per una pubblicazione integrale si dovette attendere l’intervento del linguista Johann Andreas Schmeller che ne curò la prima edizione nel 1847, cui lo stesso Schmeller diede il titolo di Carmina Burana. Tutta la rimanente parte della storia è avvolta da un mistero che affonda le proprie radici direttamente nei primi decenni XIII secolo, epoca in cui il codex fu compilato. Non ne conosciamo nemmeno la destinazione, vale a dire se fosse un pratico canzoniere per un menestrello o se invece fosse destinato alla biblioteca di un signore (laico o meno) che apprezzava il linguaggio salace della satira. Ma, in definitiva, cosa sono i Carmina Burana?

Come detto sopra, si tratta di una silloge in cui sono stati raccolti – ad opera di tre differenti amanuensi – 228 canti in latino e medio alto tedesco organizzati in tre sezioni: Carmina moralia, di argomento morale e satirico, Carmina veris et amoris, dedicati all’amore e alla primavera, ed infine i canti bacchici e giocosi dei Carmina lusorum et potatorum. A questo nucleo originario, compilato agli inizi del 1300, si aggiunge poi un ulteriore gruppo di canti copiato da vari autori (si stima circa una trentina) tra la seconda metà del XIII secolo e gli inizi del XIV.

Questa monumentale antologia raccoglie un gran numero di canti di argomento vario, ma tutti sono collegati dal fil rouge degli autori che li composero: i goliardi. Con questo termine oggi siamo soliti indicare coloro che commettono ragazzate e buffonerie, più o meno innocue, ma nel 1200 i goliardi erano una categoria ben precisa: erano quegli studenti e quei docenti facenti parte delle università – all’epoca de facto controllate dalle cattedrali sotto la cui ombra le stesse università erano germinate – e che non costituivano un movimento di opposizione all’ordine vigente in quanto facenti parte pressoché completamente dell’ordo clericalis (erano chierici, quindi uomini di chiesa diversi dai sacerdoti o dai monaci perché solitamente ricevevano gli ordini minori o si limitavano ad abito, tonsura e alcuni minimi obblighi liturgici). Il fenomeno dei goliardi è interessante perché contestava lo stesso ordine di cui facevano parte non con l’intento di distruggerlo ma perché mossi dal desiderio di riportarlo sulla retta via della povertà evangelica, disgustati dall’arricchimento della Chiesa, ad esempio la maggiorazione delle decime cui era sottoposto il contado; non si tratta quindi di una frangia di scapestrati ma di una compagine compatta di individui colti, che va dai più noti maestri dell’epoca fino agli studenti, aderenti alla riforma ecclesiastica voluta da papa Gregorio VII, pertanto non si trattò di un movimento anticlericale ma anticuriale. Il modo con cui scelsero di dar voce alla propria protesta fu la poesia.

Va detto fin da subito che i componimenti dei goliardi ebbero un successo straordinario, di cui lo stesso Codex Buranus è testimonianza: si tratta infatti di una silloge che riporta alcuni dei carmi più noti e diffusi nel panorama europeo dell’epoca la percentuale di brani composti ex novo contenuti nella raccolta è davvero minima; molti dei motivi e delle immagini evocate dai canti racchiusi nei Carmina Burana godettero di grande fama per tutto il Medioevo e, come sottolinea lo studioso Piervittorio Rossi, «rappresentano i primi indizi di quella crisi del mondo medioevale che avrebbe portato alla nascita della mentalità borghese e del mondo moderno».

Il nostro ideale moderno di Medioevo fa sì che entrare in contatto con versi satirici dell’epoca possa lasciarci spiazzati, tale è la franchezza e la forza del linguaggio usato dagli autori dei Carmina nel momento in cui esprimono il proprio giudizio sulla Chiesa, come nel caso del CB 44, eloquentemente intitolato Initium sancti evangelii secundum marcas argenti, ovvero «Inizio del Santo Vangelo secondo i Marchi d’argento», in cui viene presentato un ipotetico passo del Vangelo dove, utilizzando vere citazioni evangeliche decontestualizzate, il papa e la curia vengono ritratti come persone avide e corrotte che guardano solo al denaro (come preannunciato dal titolo, che è anche un gioco di parole con il nome dell’evangelista Marco).

Toni altrettanto forti si riscontrano nella seconda sezione, dedicata principalmente all’amore. In un’epoca in cui i trovatori provenzali si accostavano alla donna cantandola come un essere di straordinaria purezza, i goliardi la ritraggono come una creatura che si riconosce quasi completamente nella propria fisicità e che nulla ha a che vedere col sacramento del matrimonio: è una fonte di piacere intenso ma effimero, l’oggetto di un amore composto in pari misura da voluptas cupiditas. Nel modello ideale di donna i goliardi scartano tutto ciò che riguarda l’amor cortese, ma anche tutto ciò che può rimandare alle strutture sociali dell’epoca, da loro rifiutate: si scarta quindi la matrona e si sceglie la giovinetta, idealmente appena adolescente, ritratta con la stessa intensità di una Venere antica.

Alla critica verso le istituzioni ecclesiastiche, al rifiuto per le rigide imposizioni (e impostazioni) sociali, i goliardi aggiungono un ulteriore elemento caratterizzante: l’amore per il gioco e il vino, ed entrambi si possono trovare all’osteria. La sezione che riguarda i Carmina lusorum et potatorum è forse la più celebre di tutta la raccolta, dove i tratti tipici dei goliardi si fanno più marcati, dove i versi si fanno sempre più audaci e liberatori, pervasi da gioioso edonismo e dal desiderio di coltivare una felicità espressamente terrena da celebrarsi sotto l’egida del dio Bacco, feroce parodia del Dio cristiano. In questa sezione abbondano parallelismi, a tratti blasfemi, con i simboli pagani e la religione cristiana: non ci si fa troppi scrupoli a paragonare il buon vino delle botti col sangue di Cristo, e questo nel ‘200. Non deve meravigliare troppo l’atteggiamento severo tenuto dall’ala più conservatrice della Chiesa verso i goliardi che trovano il proprio capostipite in Pietro Abelardo, che fu appunto soprannominato «Golia», con chiara accezione demoniaca, da San Bernardo di Chiaravalle.

Può sembrare una ribellione, una trasgressione, di poco rilievo dato che avvenne senza mai staccarsi dal grembo che la generò, ma è bene tener presente che «in quel tempo» non si andava tanto per il sottile: a tutti è nota la sorte di Abelardo, meno nota quella di uno dei suoi allievi che fu anche uno dei primi goliardi, vale a dire Arnaldo da Brescia che a seguito del suo arroccarsi su determinate posizioni fu presto arrestato e condannato all’impiccagione. I gloiardi furono aspramente criticati non solo per il proprio stile di vita, ma soprattutto per il loro continuo ricorso a modelli e immagini recuperati dal paganesimo, del loro atteggiamento fortemente critico verso le strutture sociali, in una parola: per la propria libertà di pensiero.

 

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