Parlando con Marco Santagata: Premio Strega, scuola e molto altro

Intervista a Marco Santagata

 

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Che fosse attratto da Bice era fuori discussione, ma si chiedeva anche se, per caso, non fossero i gesti di amicizia, le premure che lei gli riservava a spingerlo a interpretare come sentimento amoroso la soddisfazione di essere considerato da una delle dame più in vista di Firenze. Che poi, cosa ne sapeva lui dell’amore… Mai aveva provato quegli eccessi di onnipotente felicità che facevano dire al suo Guido: “Io cammino sulle acque”

Marco Santagata è uno dei più eminenti studiosi di letteratura italiana del nostro paese, docente ordinario all’università di Pisa. Il suo interesse si incentra sopratutto sulla lirica italiana dei primi secoli. Numerosi gli studi e le pubblicazioni su Dante, Petrarca e il petrarchismo ma con uno sguardo rivolto anche a Leopardi e alla poesia italiana fra Otto e Novecento. Accanto al suo lavoro accademico, si affianca quello di narratore di successo. Tra i suoi lavori ricordiamo Papà non era comunista, Il Maestro dei santi pallidi, L’amore in sé, Voglio una vita come la mia e Come donna innamorata, opera arrivata nella cinquina dei finalisti al Premio Strega di questa ultima edizione.

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Tuttomondo ha avuto il piacere di intervistarlo e di discutere con lui di tantissime cose: premi letterari, scuola, letteratura,dei suoi lavori ovviamente di Dante Alighieri, il sommo poeta. In questa occasione è stata preziosa la collaborazione di http://www.recensionilibri.org/ e in particolare di Stefano (http://www.recensionilibri.org/?s=santagata)

Il suo libro, Come donna innamorata, ha riscosso un buon successo di pubblico e di critica. Impresa notevole per un accademico, tanto più alla luce del tema trattato. Se lo aspettava?

Credo che un autore non deve mai parlare della propria opera, come diceva un critico letterario tedesco, un autore, in fondo, non  sa di sé più di quanto una farfalla sappia di entomologia. Nel momento della scrittura chi comanda è la scrittura, l’autore si limita ad andargli dietro. Nella scrittura creativa c’è una forte dose di inconsapevolezza; è augurabile che ciò sia minore nella scrittura saggistica, ma son convinto che anche qui persista una componente autobiografica ineliminabile.Tale consapevolezza, secondo me, aiuta a uscire dal mito falso della scientificità nel nostro settore, che non esiste, e potrebbe anche aiutare a dare un po’ di vita a scritti che si presentano in maniera tecnica o gergale e che, in ogni caso, danno un aspetto un po’ funebre alla nostra produzione complessiva di critici e storici della letteratura.

Il suo libro, Come donna innamorata, si incentra sulla figura di Dante. Parlare a un grande pubblico di un pilastro della nostra letteratura è un bella sfida. Immagino che parlare o capire Dante sarebbe un’ardua impresa senza conoscerne la biografia.

Più si conosce più si comprende. Quello dell’autosufficienza del testo è un’ altro mito da sfatare, che appartiene a una stagione culturale passata. Forse ora, per reazione, si tende ad esagerare ne ll’attribuire un peso eccessivo alla componente biografica; in ogni caso meglio esagerare che non prenderla in considerazione per niente. La lettura del testi del passato è fondamentale nasca dalla conoscenza delle condizione storiche, sociali, culturali di quell’ epoca. Questo è anche il  modo migliore per attualizzare i classici: non sovrapponendo a loro la nostra visione del mondo, ma cercare di capire qual era la visione di quel mondo per trovarne similitudini e tangenze.

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Lei è una grande studioso di Dante e Dante è il protagonista del suo libro. Cosa si prova ad arrivare finalisti ad un premio letterario così importante, come lo Strega, tanto più nella duplice veste, non così usuale, di accademico e narratore?

Divertente. Mi era già capitato anni fa, nel 2003 vinsi un Campiello [ con Il maestro dei Santi Pallidi ,2003 Guanda, ndr]. Ma devo dire che mi sono divertito di più allo Strega, perché è un premio che ha dietro chiacchiere, pettegolezzi; e se uno le prende come vanno prese, con distacco, senza farsi coinvolgere troppo, è molto divertente vedere questo mondo che si agita quasi sul nulla. Il premio di quest’anno poi si è mosso intorno alla vicenda della misteriosa Elena Ferrante, che ha fatto parlare più che in altre edizioni. In fondo va anche bene, perché il premio Strega serve a far parlare di libri; e quindi più se ne parla meglio svolge il suo compito. La richiesta ideale sarebbe che proponesse libri buoni, e questo non sempre succede, come non succede in tanti altri premi letterari.

Entriamo nel vivo del suo libro, Come donna innamorata. Leggendo, non si può non notare che il suo Dante è, prima di tutto, un uomo in carne ed ossa, ambizioso, travagliato, sofferente … diverso dall’ immagine che ne restituisce la scuola.   Da dove nasce quest’ idea? 

 In tanto dietro a questo  libro ce n’è un altro: [Dante. Il romanzo della sua vita, 2012 Mondadori , ndr]. Già lì ho cercato di dare un’ immagine diversa. Volevo buttare giù Dante dal piedistallo su cui è da sempre collocato, per parlare di una persona normale e non di un monumento. Si ha l’idea che i geni, non si sa perché, vivano in un altro mondo, ma anche Dante, come tutti, aveva  i difetti e i pregi di ogni persona.

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Nel ricostruire la figura di Dante fino a che punto ha attinto dai  dati biografici reali e dove, invece, è venuta in soccorso la finzione letteraria?

Già nel mio precedente lavoro  avevo cercato di fare una ricerca biografica, ma questa è un’opera di finzione, quella no. Come donna innamorata è un’opera di finzione, non giurerei affatto che Dante fosse così come lo descrivo; probabilmente per certi aspetti questo mio Dante può assomigliare al personaggio reale, ma per altri mi son inventato una mia biografia. Ad esempio il rapporto con la moglie, Gemma Donati, è una mia invenzione.

Quindi anche la storia che i primi canti dell’Inferno sarebbero stati salvati da Gemma, che poi li diede a Dante in esilio  è frutto di un’invenzione letteraria?

No. Questa storia ce la racconta Boccaccio nella sua Vita di Dante. Gemma Donati, prevedendo che la casa al momento dell’esilio sarebbe stata saccheggiata, avrebbe messo da parte in un luogo sicuro le cose di valore, tra cui alcune carte del marito. Le recupererà poi anni dopo, e si scoprirà che dentro c’erano i primi sette canti della Commedia. Questo racconta Boccaccio; probabilmente c’è una componente di verità, su cui poi Boccaccio avrà un po’ lavorato di fantasia.

Leggendo, Dante appare come un poeta stimato nella Firenze del suo tempo e dalle grandi ambizioni letterarie. Ma Dante era davvero consapevole della sua grandezza, voglio dire, sapeva di essere un pioniere nel panorama della nostra letteratura?

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Molto. Dante sapeva quello che stava facendo. Sapeva bene che il suo atteggiamento nei confronti del volgare, che contrapponeva addirittura al latino, arrivando a sostenere che un giorno lo avrebbe soppiantato come lingua di cultura, era un atteggiamento rivoluzionario. Lui stesso dice di essere superbo, una superbia fondata in questo caso. Una delle caratteristiche impressionanti di Dante è che ogni cosa che tocca si trasforma in qualcosa di geniale: si occupa di lingua italiana ed è un linguista straordinario, con intuizioni che precedono di secoli quello che scopriranno i linguisti, scrive un trattato di filosofia, il Convivio, e si mostra un filosofo nel senso pieno del termine, in un momento nel quale la filosofia era una disciplina nata da poco, appena approdata a Bologna da Parigi, si occupa di politica, con il trattato sulla Monarchia, e verrà studiato per secoli nel dibattito sulla forma e la funzione dello stato. Dante è un personaggio decisamente fuori dal comune, e di essere fuori dal comune lui ne era ben consapevole.

Nell’ immaginario collettivo il nome di Dante viene associato a quello della sua amata, Beatrice. E, anche nel suo libro, Bice ricopre un ruolo importane. Ma non ci fosse stata Beatrice Portinari, ci sarebbe stato lo stesso Dante Alighieri, almeno per come lo conosciamo?

Francamente questo non glielo so dire. La storia è andata così. Ma non dire che prima c’è Beatrice e poi Dante, semmai il contrario. Prima Dante inventa una poesia nuova, la poesia della lode, dopodiché questa invenzione si cala in un personaggio. Non credo sia stata Bice Portinari a suscitare questo. Oltretutto che rapporti lui avesse con questa persona sposata, noi non lo sappiamo. Siamo un po’succubi del gioco di Dante. In realtà nella carriera del giovane Dante, fino al tempo della Vita Nova, Beatrice occupa uno spazio minore rispetto ad altre donne. Anche nella Vita Nova c’è una ‘’rivale’’, che Dante non chiama, definendola ‘’donna pietosa’’, che sembra avere avuto un ruolo assai più rilevante, almeno dal punto di vista quantitativo, nella sua produzione poetica. Quello con Beatrice è solo un episodio durato pochi anni, e quali fossero i loro reali rapporti non lo sa nessuno. La figura di Beatrice è centrale perché si collega a una rivoluzione letteraria e da qui parte la costruzione del suo mito. Anzi spesso passa un’immagine troppo idealizzata di queste figure femminili. I  poeti medievali non erano dei matti, quando parlavano di donne parlavano di donne, non di angeli come si insegna a scuola. E mai che ci si ponga il problema di come questi presunti angeli fossero tutte donne sposate e se i mariti ne fossero contenti. Beatrice era sposata a Simone dei Bardi, che doveva essere un personaggio nella Firenze del tempo. Beh… era contento che un ragazzotto di nome Dante Alighieri portasse in giro per Firenze poesie in cui celebrava l’amore per sua moglie? Ciò vale per Dante, ma vale per tutti. La poesia medievale era tutta “adulterina”, per motivi pratici evidenti. Non si poteva cantare l’amore per una ragazza, il codice dell’onore lo impediva. L’unica cosa possibile era parlare di dame. Però resta questo problema, che io trovo abbastanza interessante e che non saprei risolvere. Nella società fiorentina com’era vissuto questo rapporto tra i poeti e queste dame della buona società di Firenze? Un punto interrogativo che resta aperto e che potrebbe offrire nuovi spunti di ricerca.

Presentare un Dante uomo, che rompe un po’ di luoghi comuni, potrebbe essere un buon modo per rendere più attuale lo studio dei grandi autori della nostra letteratura, anche tra i banchi di scuola?

E’ inevitabile che dopo secoli di studi e interpretazioni si sia depositato uno strato di luoghi comuni estremamente tenaci e difficili da spazzar via. Questi luoghi comuni poi agiscono per forza nell’approccio scolastico. Io credo che fare delle domande che non sono state poste finora, cambiare il punto di vista, possa aiutare ad avvicinare un testo; un testo che, nel caso di Dante, prende già di per sé, con una tale potenza impressiva da restare. È un fenomeno che si constata sempre. Quando si esce dalla scuola l’autore che si ricorda più di tutti è proprio Dante Alighieri. Fare nuove domande allora non con l’intento, impossibile, di restituire il vero Dante, ma per mostrare un Dante che possa parlarci di più e che possiamo sentire più vicino. Io ci provo; in contesti come questo, di finzione, ma anche nei saggi critici; come ci provo anche con Petrarca e con altri autori.

Il numero di questo mese di Tuttomondo è dedicato alla Scuola. Da docente universitario, quanto ha senso, oggi, per un giovane, studiare le discipline umanistiche, sotto il profilo non solo formativo ma anche e sopratutto professionale?

 Potrei rispondere con una terzina dell’Inferno:

“Tu vuo’ ch’io rinovelli 
disperato dolor che ‘l cor mi preme 
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.

Dante a parte, io sono la persona meno adatta a cui fare questo domanda. Dei miei tre figli uno è storico della chiesa, la seconda sta per laurearsi in italianistica, il terzo si è appena iscritto a storia dell’arte. Sarà difficile per tutti e tre trovare lavoro, o almeno uno sbocco professionale attinente alla loro vocazione. Tuttavia resto convinto che all’università si debba fare ciò che piace. Sono molti i medici che, arrivati alla pensione, vengono a seguire i miei corsi e che mi raccontano che volevano fare lettere. Che poi questa formazione condanni alla disoccupazione non è vero. È una formazione sufficientemente elastica da adattarsi a vari tipi di lavoro. Bisogna sapersi adattare e ci vuole anche fortuna, ma gli sbocchi professionali ci sono. Le facoltà umanistiche non devono adeguarsi alle leggi di un mercato che cambia continuamente, la loro forza sta nel saper dare una buona base culturale, una formazione che permetta poi di cogliere le occasioni e di stare al passo.

Quindi ha un senso iscriversi a queste facoltà umanistiche?  

Secondo me sì. Se uno ha anche un po’ di senso dell’avventura….

Prossimi progetti letterari?

Per ora faccio il mio lavoro, anche se scrivere è più divertente.

bianca

 

 

 

Biancamaria Majorana

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