Medea di Annick Emdin Il mito come messaggio universale
Venerdì 12 dicembre 2014, presso la sala oratoria della chiesa di S. Marco a Pisa, la talentuosa studentessa universitaria Annick Emdin, scrittrice, regista e drammaturga, ha portato in scena un’opera decisamente singolare e particolarmente interessante, intitolata Medea, una rivisitazione moderna del mito di Euripide. Il progetto, pensato da Francesca Orsini e sceneggiato da Annick, ha come fine ultimo quello di mostrare il mito come portatore di un messaggio universale. Lo spettacolo vede al suo interno pochi oggetti di scena e due attori accompagnati da alcune musiche suggestive: Francesca Orsini e Andrea Germignani, con la collaborazione di Mattia Gabbriellini per il montaggio audiovisivo.
Ho avuto la possibilità di parlare con la regista che mi ha dato qualche delucidazione riguardo la sua creazione:
Annick, come è nata l’idea di questa sceneggiatura?
Voglio precisare che l’idea è nata da Francesca. L’idea era quella di rivisitare un classico ambientandolo in un’epoca non definita, per sottolineare l’atemporalità del mito, in particolare quello greco. Mi piaceva l’idea di giocare sul legame che c’è tra mito e psicologia, il legame ancestrale tra il mito, creato secoli fa, e la realtà della psicologia umana che ricade spesso nei suoi percorsi psicologici. L’idea di ambientare l’opera in Francia è stata un’idea di Francesca, ed è stata una buona scelta: volevo che lo spettacolo avesse un tono universale e si distaccasse dai recenti e specifici fatti di cronaca accaduti in Italia. In realtà, il titolo originale era Medea, la strega di Tulle, ma ci tenevo a chiamarla comunque Medea perché secondo me era giusto sottolineare che è una vera e propria rivisitazione dell’opera euripidea, perché altrimenti l’intero spettacolo avrebbe perso la sua logica principale. Inconsciamente potrei aver preso delle suggestioni da Sebastian Fiztek, uno scrittore tedesco che nelle sue opere tratta di psicologia, degli scherzi della mente. Alcune delle scelte registiche sono state determinate da motivi pratici, ma io sono anche una fautrice dell’essenzialità del teatro.
Ecco, parlando di questo, l’assenza di scenografie precise e l’utilizzo dello sfondo neutrale, i costumi, gli oggetti di scena… Rientrano tutti nella tua idea di teatro?
La magia del teatro è questo. È la capacità dell’attore e del testo di creare una storia, anche senza scenografia, perlomeno dall’avvento del cinema. La gente va al cinema per vedere anche le scenografie, ma la gente che viene a teatro, lo fa per venire a vedere una storia. Una funzione importante l’hanno avuta le musiche. Secondo me la musica è narrativa, pertanto risulta logicamente necessaria al testo. Alcune delle musiche sono state scelte per creare un po’ di contraddizione con l’ambientazione, ma mi sono voluta soffermare in particolare su un brano, Carmen, di cui ho usato due versioni: la prima, interpretata originariamente da Maria Callas, e la seconda in versione elettronica di Stromae, questo per sottolineare che la nostra mente distorce tutto.
Qual’ è il messaggio che volevi trasmettere al pubblico con la tua Medea?
Il messaggio sta nel finale: gli esseri umani hanno bisogno di storie e miti che raccontino loro come sono fatti. L’idea di usare il mito come mezzo con cui spiegare il genere umano, deriva soprattutto da Aristotele, in particolare per quanto riguarda l’utilizzo della tragedia e dei miti come catarsi. In opere come queste gli autori tendono a motivare la follia dei propri personaggi, ma io non ho voluto farlo. Non posso giustificare la follia di Edith (la protagonista), perché non è giustificabile, e trovare una giustificazione sarebbe un atto aberrante. Secondo me uno scrittore deve astenersi da ogni giudizio, soprattutto se di carattere etico/morale. Questo messaggio secondo me, almeno la maggior parte degli spettatori, lo ha compreso, e in particolar modo le mamme e i giovani.
La scelta del finale ha lasciato tutti gli spettatori a bocca aperta. Come mai hai deciso di usare questo colpo di scena?
Mi piaceva l’idea che la storia, come invenzione mia, fosse anche un’invenzione del personaggio. Mi piaceva sottolineare il fatto che non è tanto importante se una storia sia vera o falsa, ma il senso della storia. La chiusura “a cerchio” è funzionale a suggellare la comprensione dello spettatore. Il senso dello spettacolo, per usare una citazione di Nietzsche, è che non esistono fatti ma solo interpretazioni.
Ci potrebbero essere delle analogie tra la tua “Medea” ed il tuo romanzo “Lividi”?
No. Sono passati sei anni, la mia scrittura è cambiata, si è evoluta, e insieme ad essa le mie esperienze personali. L’unico punto che trovo in comune, e che in generale caratterizza la mia narrazione, è la violenza latente nella psicologia umana. Nonostante la storia giri intorno al ruolo di Edith, interpretato da Francesca, anche Andrea Germignani non è stato da meno.
Come descrivi il rapporto con lui durante la preparazione?
Considero Andrea un attore straordinario. La parte più lunga e più complessa, da un punto di vista interpretativo, l’ho assegnata a Francesca, ma ho voluto assegnare ad Andrea un ruolo che comprendesse delle grosse responsabilità: lui apre lo spettacolo, chiude lo spettacolo, ed interpreta un doppio ruolo, se non triplo. Io mi sono meravigliata della bravura di Andrea, nel momento in cui ha interpretato il ruolo dello psichiatra ingenuo che cerca di imporre la sua autorità, un ruolo estremamente complesso che credo sia una delle cose più difficili da fare in teatro… Lui è riuscito a sembrare ingenuo, nonostante usasse un tono autoritario e severo. E’ una cosa che solo un attore talentuoso come lui poteva fare. La cosa positiva è stata che si è trovato subito bene con Francesca, quindi quasi tutto il lavoro si è svolto in un clima di totale serenità.
Dopo aver parlato dello spettacolo, ho chiesto un breve intervento anche a Francesca Orsini, che ha accettato di rispondere ad un paio di domande:
Francesca, da cosa è nata l’idea di creare uno spettacolo sulla Medea, e che lavoro hai fatto su te stessa per creare il personaggio di Edith?
Io, Annick, e tutti i ragazzi della compagnia crediamo che ogni cosa la creiamo dalle esperienze di vita, come fa ogni altro artista che si ispira alla realtà che lo circonda. Ogni nostra messinscena ha come caratteristica lo studio della psiche umana e delle sue debolezze. Io personalmente sono molto attratta dal sentimento della gelosia: ho concluso il mio percorso di studi triennale con una tesi sull’Otello di Welles, perché mi incuriosisce ciò che l’uomo è capace di fare, guidato dalla gelosia, o dall’invidia nei confronti di un’altra persona. Detto ciò, ho pensato che la cosa più atroce che avessero mai scritto sul tradimento, sulla gelosia, e sulla vendetta è stata appunto la Medea, ed è ad essa che ci siamo voluti ispirare. Nonostante ciò sentivo che il testo della tragedia fosse molto lontano dalla mia personale interpretazione del mito, pertanto ho parlato con Annick e le ho proposto di “riadattarlo”, ambientandolo magari in un’epoca moderna, e così è stato. Nel mito Medea ne esce come una donna forte, qui invece Edith ne esce indifferente, quasi superficiale. In realtà, come ogni attore, ho messo in scena me stessa, un lato della mia persona e del mio carattere che solo in pochi conoscono. Io mi sentivo molto come Edith, perché so bene cosa vuol dire sentirsi rinchiusi in una realtà provinciale, quindi mi sono ritrovata ad essere il personaggio più che interpretarlo. Ho voluto dare un’interpretazione quasi androgina: la scelta degli abiti di scena, la voce (ho dovuto fumare un sacco di sigarette per abbassarmi la voce), le movenze, tutto era volutamente di carattere mascolino, perché volevo far comprendere agli spettatori che questo personaggio era universale, e non prettamente femminile.
Ti sei ispirata a qualche attore, a qualche ruolo o qualche opera per creare il tuo personaggio?
Io sono molto antiaccademica: non ho mai frequentato un’accademia di recitazione né intendo farlo. Nonostante ciò comunque non ho un rifiuto totale nei confronti della tecnica, vuoi o non vuoi ti serve. Nel generale, la mia “palestra” sta nel seguire gli attori che apprezzo di più per la loro capacità comunicativa, come Giorgio Lopez o Monica Guerritore, ma per la Medea ho preso volutamente ispirazione dal personaggio di Alex Vause nella serie televisiva Orange is the New Black, interpretato da Laura Prepon.
Uno spettacolo coraggioso, insomma, molto accurato ed estremamente piacevole. Opere del genere rischiano di risultare pesanti quanto il cenone di Natale, ma Annick è riuscita strategicamente ad evitarlo. La regista spera che ci possano essere delle repliche in primavera, e personalmente lo spero anche io, perché questo non l’ho considerato solo uno spettacolo interessante e ben fatto, ma un viaggio, intenso e suggestivo, che porta lo spettatore a riflettere sul mondo che lo circonda e soprattutto su se stesso.
Giuseppe D’Agata
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