E’ difficile definire cosa sia un tabù quando di parla di sessualità. Passati gli anni, turbolenti, del perbenismo e della borghesia vittoriana oggi sembra assurdo dover ancora trattare tematiche come quelle che escludono dal panorama sociale alcune pratiche o modi di pensare o di, peggio ancora, di essere. Ma in realtà qualcosa ancora deve essere del tutto messo a nuovo. Come le concezioni riguardanti genere e sesso e soprattutto i personali utilizzi che ognuno di noi ne fa: si pensi ai feticismi, alle parafilie, oppure alle transizioni sessuali.
Elencando uno per uno i presupposti che danno vita ad un tabù, in fondo, ci si rende conto di quanto sia del tutto privo di fondamento pensare che nascondere, sottintendere o, meglio ancora, celare la realtà agli occhi di un qualsivoglia giudice possa rendere meno ansiosi rispetto alla performance da compiere agli occhi della società. E oggi più che mai è necessario affrontare un tema scottante che ha riscosso il giusto interesse per la critica letteraria, antropologica, religiosa, politica e quotidiana: quello riguardante il famigerato Gender. Sì! Ne abbiamo sentito parlare parecchio, soprattutto in relazione alle sommosse alzate da vari genitori intimoriti dal Gender. Pare stia entrando nelle scuole, si stia facendo avanti sotto mentite spoglie e voglia mettere in testa ai nostri figli che il sesso, la sessualità, il genere siano solo invenzioni fantascientifiche codificate da un sistema di freaks che cerca in tutti i modi attuare metodi escatologici per giustificare finalmente la propria anormalità.
Ma bisogna capire di cosa tratta. Perché è necessario, purtroppo, chiarire le cose, le famigerate teorie gender esulano dalle barzellette che le hanno rappresentate e necessitano di competenze specifiche per essere affrontate.
Quello che importa ai fini dell’articolo è comprendere come da un tabù possa nascere il presupposto che determina la fine della libertà di centinaia, migliaia, di persone.
Ripercorrendo le pagine della nostra storia, mi pare sia abbastanza evidente che in realtà l’uguaglianza non sia mai stata una prerogativa del tutto ‘’umana’’. Abbiamo dovuto lottare per riuscire ad elargirne poca alla volta a chi lo meritava. Dalla rivolta degli schiavi, alla Rivoluzione Francese. Per finire poi con le battaglie portate avanti dagli afroamericani e dalle femministe lesbiche e non. Senza neanche ricordare le lotte rosse degli operai o quelle degli studenti durante gli anni Sessanta. Non menzioniamo nemmeno le feroci diatribe tra il mondo orientale e quello occidentale. No! Chi ce lo fa fare di discorrere per ore del perché l’affermazione “siamo tutti uguali” sia in realtà falsa e infondata.
La volontà di cui noi esseri umani siamo dotati, o a cui siamo condannati, ci ha condannati a situazioni non del tutto gradevoli. Si tratta di atti pieni di odio, di esclusioni concepite in seno alla cieca convinzione. Per questo motivo è necessario mettere in risalto la negatività di un tabù quando esso diventa presupposto di controllo e di repressione.
L’intento è cercare di comprendere che ogni tipo di cambiamento deriva dalla distruzione di ciò che c’era prima. Dalla messa in atto di un ragionamento logico che riesca a collegare bene i nessi con i loro corrispondenti significati. Si parte da lì. Dal comprendere che fino ad oggi è esistita una sorta di giustificazione razionale per il binarismo sessuale o di genere. Oggi quei presupposti però devono cadere! Bisogna partire dall’individuo in sé per e per sé. Un individuo che sia slegato da ogni regime politico o religioso, non ancorato staticamente, inquadrato in una serie di concetti che potrebbero non interessarlo, affidandogli significati-attributi a casaccio, senza alcuna logica.
Uno dei tabù più grandi della nostra epoca è questo: considerare la donna, il femminile (forse rende meglio), degno di carattere e considerazione. L’espressione del femminile stesso è tabù, quando questo però è considerato un atto di volontà personale. Come una donna che decide che le sue sembianze non le piacciono, la ragazza a cui piacciono le ragazze, l’uomo che ha atteggiamenti femminili o decide di assumere sembianze femminili. La donna che non vuole essere madre. Il maschio che non vuole essere uomo. Sono tante le sfumate, ovvie, che troviamo nella psicologia umana. Solitamente però chi ha desideri o gusti, o somiglianze, in qualche modo associabili al femminile, pur essendo maschio, perde in qualche modo il privilegio della dignità e agli occhi della società diventa o un’icona, che ha superato le sette fatiche, oppure il martire, da compatire e sostenere.
Il motivo di tale atteggiamento spesso è da considerarsi meno pericoloso degli effetti che da esso ne derivano perché porta con sé la prova del fatto ancora una volta mancano le vere fondamenta di quel particolare concetto che è l’individualità.
Proviamo a fare una digressione, considerando il maschile e il femminile come corrispondenti tanto all’uomo che alla donna. Cosa ne verrebbe fuori? Che la separazione netta tra ciò che è naturale, come il sesso biologico, a sua volta interscambiabile, e ciò che è sociale, quindi codificato, trascina con sé la libertà di rendere il termine femminile alla stregua di maschile. Tra i due significati è quello sociale che sente l’esigenza di denigrare e sminuire la femminilità per rendere più forte il concetto di maschile, cercando in tutti i modi però di scimmiottare la natura e mettere in risalto la forza produttiva. Associando però ai due termini un ulteriore sfumatura di significato, nell’equazione: maschile: femminile = uomo: donna, il termine che viene a stare e sotto è quello femminile. Immaginiamo ci sia un più e un meno, paragonabile ad un sopra e ad un sotto e infine comparato ad un buono e cattivo. E’ logicamente ammissibile fare un ragionamento indiretto, forse meglio considerarlo involontario, che ci induca a pensare in maniera simmetrica senza cogliere di ogni cosa la multidimensionalità ma considerando solo alcuni aspetti e tralasciando gli altri.
Allora, ecco che tutto potrebbe sembrare meno strano e temibile. Non ci sarebbe la paura di relazionarsi al diverso, non ci sarebbe nessuno a doversi impegnare in crociate anti gay e a nessuno verrebbe mai in mente di sottoporre i propri figli ad assurde pratiche cristiane per curare la loro anima (perché purtroppo ancora oggi c’è chi credi di poter far guarire i propri figli dall’omosessualità spedendoli in centri religiosi che li segregano e li obbligano ad interminabili ore di preghiera con la speranza di tornare ad essere “normale”). Non avremmo ogni giorno in prima pagina casi legati al femminicidio. Non discuteremmo delle quote rosa o delle dimissioni in bianco. Forse non avremmo problemi a rapportarci all’altro senza schermi o paranoie.
Sembra un discorso semplicistico, legato a considerazioni più che altro legate alla sessualità e alla problematica rappresentazione che di essa ne perviene che quindi la intrappola in una serie di discorsi tali da renderla un tabù. Dal punto di vista etico però si vuole fare un passo un avanti. L’etica non è soltanto ciò che è giusto perché considerato buono o utile, ma è quello che oggettivamente va considerato prima di rendere impossibile a qualcuno la relazione con sé stesso e con gli altri. Le regole, quelle buone che ognuno dovrebbe considerare, sono tali nel rispetto e nella libertà di tutti. Ma si torna al discorso di prima: chi sono tutti? Chi mi da i parametri per decidere se considerare in quel tutti , tutti quanti? Perché le cose non sembrano stare così. Si nota piuttosto una costante voglia di separare di distinguere di mettere in evidenza le differenze invece di valorizzare le diversità.
L’intera cultura occidentale è retta della messa a sistema di un intero codice comportamentale in grado di farci concentrare sulla netta simmetria dei binari che ci hanno imposto senza sconfinare mai senza pensare che sia davvero inconcepibile un’autostrada a cinque o più corsie, o meglio un oceano in cui le rotte da seguire potrebbero essere sconfinate. Ma per paura di potersi perdere e non saper tornare indietro e pigrizia di mettersi in discussione a partire da se stessi, di porsi domande mettendo in discussione tutto quello che fino ad oggi è stato considerato opportuno, o normale o regolare o legale, le cose rimangano statiche e ferme sui loro passi.
La tecnologia oggi ci ha dato l’opportunità di pensare a noi stessi partendo dalla nostra individualità, decidendo cosa fare del nostro corpo e della nostra personale autodeterminazione. La società però ci tiene intrappolati in inutili schemi mentali secondo i quali è possibile scindere il bene dal male e con i quali, in maniera semplicistica, ordiamo le cose basandoci su caratteristiche biologiche o sessuali, senza ammettere una volta per tutte che ogni tipo di sistema culturale, politico e sociale può e deve essere sovvertito.
Pensiamo ad esempio ad un caso emblematico per la nostra discussione: le hijras dell’India. Hijras è la parola Urdu che significa ermafrodita. Loro si definiscono né uomo né donna e in testi piuttosto antichi vengono considerati come il risultato della parità tra le forze generatrici del padre e della madre. Nel 2013 con uno storico pronunciamento, (in risposta alla petizione presentata da varie associazioni, col supporto di Laxmi Narayan Tripathi), la Corte Suprema indiana ha deciso di istituire l’esistenza del Terzo Genere. Gli appartenenti al Terzo Sesso possono dunque ottenere regolarmente passaporto, patente di guida e ogni altro documento richiesto.
Un gesto questo mosso da un forte spirito di religiosità e di contraddizione. Perché, in India e soprattutto in Bangladesh, l’hijras appartiene ad una leggenda religiosa che richiama il mito di Krishna e di Shiva. Krishna che diventa donna per esaudire le ultime richieste del valoroso guerriero Aravan che muore la notte stessa. Spesso usato come rito ai matrimoni in cui lo sposo incarna Arovan e le hijras Mohini (Krishna divenuto donna). In questo rito si descrive la morte di un uomo ma la nascita di una Dea. Shiva, invece, tagliò il suo pene per donare il potere della sessualità agli uomini. Per questo le hijras sono presenti durante le nascite e ai battesimi, perché si crede che possano donare virilità ai propri figli.
Eppure le hijras sono sempre state ghettizzate. La cultura vuole che vivano tra di loro, come in una grande famiglia. Ognuna di loro è nata hijra e per questo non è degna di appartenere a nessuna delle caste di nascita delle Other Backward Classes. Spesso costrette a prostituirsi con i loro stessi aguzzini che di giorno conducono una vita retta. Gli hijra hanno sempre vissuto esistenze a metà tra sacro e segreto, da nascondere. Non meritavano una famiglia, un’identità, un’istruzione e loro condizione erano più che precarie.
Oggi il governo ha realizzato che il fenomeno deve essere trattato con il giusto peso, quindi ha valutato l’esigenza di dare vita ad un ‘Terzo Genere’. Rimane ancora la pena di morte per gli omosessuali e le persone LGBT non hanno alcun tipo di diritto, ma le questioni di genere sembrano essere quasi superate. In questo caso, per le hijras la memoria dell’antico ruolo di sacerdotesse e prostitute sacre, o di eunuchi di corte, in contesti islamici, è messa sempre più in ombra, rispetto alla necessità di mendicare e di prostituirsi per sopravvivere. Ma riassume bene la situazione ciò che il Nepal ha espresso nei documenti ufficiali a riguardo, quando si è mostrato contrario alla mozione: “Per me la transessualità è nascere uomo e voler diventare donna o viceversa, e dunque raggiungere giuridicamente il sesso al quale si aspira. Ma i sessi devono restare due, nessuno vuol definirsi terzo sesso”. Altri paesi hanno optato per la soluzione del terzo genere come l’Australia che ha ritenuto doveroso dare spazio a chi non volevo definirsi né uomo né donna. In Italia invece, ma in generale in Europa, è sembrato forzato dover dare vita ad una nuova categoria, sicuramente escludente e indefinita per definire ciò che non si definisce da sé.
Si è messo in evidenza il carattere negativo della ‘’categoria neutra’’ ancora poco compresa, proprio perché indefinita e la paura, forse, era di incorrere in nuove forme di discriminazione. Timore del tutto plausibile dato che l’unico intendo del terzo genere è di mantenere intatte le categorie uomo e donna. Infatti neanche nel mondo indiano non mancano le discriminazioni, ancora oggi per questioni legate al genere molte persone rinunciano all’istruzione, alla sanità o alla legalità nonostante sia un diritto, per paura di non essere accettate o di non ricevere un trattamento paritario, trovando più semplici altre vie.
In questi casi bisogna sempre stare molto attenti: quello che per noi può sembrare concepibile può non esserlo per qualche altro, e viceversa. Le nostre non sono società in grado di accogliere fenomeni come le hijras o come i Khatoey in Cabogia e Tailandia ma probabilmente neanche loro, e una legge cambia perché cambia la cultura, mai il contrario.
A questo proposito, ogni volta che si parla di tabù, bisognerebbe mettersi dalla parte del tabù e provare quanto possa possa essere nocivo, soprattutto se ad essere messa a tacere è una caratteristica biologica comune ma insignificante e non categorizzante.
Vincenzo Lo Russo
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