“Le storie non valgono niente se non comunicano emozioni, e ciò si ottiene attraverso lo stile”
Anche quest’anno Dacia Maraini è stata madrina del Pisa Book Festival, giunto alla sua tredicesima edizione e conclusosi da poco. Tra le più importanti voci del panorama culturale italiano, scrittrice, poetessa, saggista, drammaturga e sceneggiatrice, vincitrice d’importanti premi letterari tra cui il Premio Campiello nel 1990 con il romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa e il Premio Strega nel 1999 con la raccolta di racconti Buio, appartenente alla cosiddetta “generazione degli anni trenta” che la colloca accanto a nomi come Umberto Eco, Gesualdo Bufalino e Alda Merini, da anni si batte per i diritti delle donne ed è impegnata attivamente nella lotta contro la mafia.
Domenica 8 novembre, al Pisa Book Festival, Dacia Maraini ha presentato il suo ultimo libro, La mia vita, le mie battaglie, pubblicato da Della Porta Editori e scritto a quattro mani con lo scozzese Joseph Farrell, giornalista e professore emerito di Italianistica presso la Strathclyde University di Glasgow. Si tratta, più esattamente, di un libro-intervista, diviso in cinque capitoli nei quali la Signora Maraini racconta rispettivamente la sua famiglia e i suoi primi anni, le amicizie e gli amori, le protagoniste femminili delle sue opere, il processo di scrittura creativa e infine le battaglie per le quali si è spesa e continua tuttora a spendersi. Abbiamo ascoltato la sua presentazione in sala Pacinotti a Palazzo dei Congressi, sede ormai collaudata della fiera dedicata all’editoria indipendente, e l’abbiamo poi incontrata in sala stampa. Ecco cosa ci ha detto.
Innanzitutto, com’è nata la collaborazione con Joseph Farrell, questo desiderio di incontrarvi, da cui è scaturita l’intesa che si respira leggendo il libro?
Gran parte del merito va alla casa editrice, che ha pubblicato prima un libro scritto come dialogo tra Joseph Farrell e Franca Rame. Quindi è stato proprio Joseph, che conosco da tanti anni, ad avere l’idea di ripetere la stessa esperienza e cominciare un dialogo anche con me. Dialogo che pian piano è cresciuto, devo dire, grazie alla sua bravura nello scavare a fondo in certi aspetti della mia vita…
Cominciamo con la battaglia contro la mafia. Che cosa ha rappresentato per lei l’ultima notizia di cronaca riguardo a Bagheria, dove una ventina d’imprenditori si sono ribellati al pizzo?
È una grande novità! Finché si parla di poche persone coraggiose – e intendo a parte i magistrati, gli intellettuali o i giornalisti che conducono simili battaglie – sono ahimè destinate a restare una piccola minoranza, e le cose non cambiano, perché il resto della popolazione continua a essere spaventata e scoraggiata. E questo non vuol dire certo che il resto dei bagherioti siano collusi: semplicemente hanno paura. Ma questa dei venti imprenditori è una grandissima notizia per me, un grande segnale di cambiamento. È vero che la base della mafia è la violenza nel senso primordiale del termine, ossia gente che possiede armi e uccide a sangue freddo, senza scrupoli, per salvaguardare i propri interessi economici. Tuttavia va sottolineato come la mafia proliferi in un clima di omertà, che è un fatto culturale. Loro hanno bisogno del consenso del pubblico, o anche della Chiesa (papa Francesco, in questo senso, sta dando forti segnali di cambiamento). Ma se l’omertà è un fatto culturale, credo che, con la rinuncia collettiva all’omertà, la mafia prima o poi si rintanerebbe, si metterebbe da parte. Non cambia niente se non cambia la società e la sua cultura, e la recente notizia giunta da Bagheria è importante appunto per questo: forse qualcosa sta davvero cambiando!
Parliamo ora dei suoi personaggi: ce n’è uno da cui non avrebbe mai voluto staccarsi, cui magari avrebbe voluto dare un seguito, e poi ci ha rinunciato?
Ho grande ammirazione per le donne coraggiose, quindi sono legata a tutti i miei personaggi femminili. Tra loro forse sceglierei, in particolare, Marianna Ucrìa, una donna uscita direttamente da un quadro del Settecento e che mi ha subito colpito per la tragicità e l’inquietudine dei suoi occhi, in un drammatico contrasto con la pomposità dei suoi vestiti di nobildonna, un personaggio molto siciliano, diventata sordomuta dopo un atto di terribile crudeltà, dal quale riesce a liberarsi anche attraverso la letteratura. Ad ogni modo, non ho mai pensato di dare seguito a nessuno dei miei personaggi.
Lei ha appena parlato, a proposito di Marianna Ucrìa, di un atto di violenza verso una donna, di cui oggi purtroppo si sente parlare sempre più spesso…
Non credo alla guerra dei sessi, gli uomini sono uguali alle donne, ma le donne sono state educate a sublimare di più la loro aggressività, e da qui i femminicidi, che sono sempre delitti annunciati. Per me anche il femminicidio è un fatto culturale. È vero che abbiamo guadagnato diritti molto importanti, e almeno sulla carta c’è la parità, ma ci sono dei rigurgiti di arcaismo nel concetto di possesso, che esiste nella nostra cultura, ma è un concetto arcaico da cui siamo usciti razionalmente. Tuttavia rimane qualcosa di profondo, di oscuro, un amalgama che talvolta viene ancora fuori, sembrerebbe quasi senza accorgercene. Ci sono uomini arcaici che non accettano, che avvertono il diritto di proprietà (io ti amo, quindi sei mia!), ma questa è una tragedia anche per gli uomini stessi che in tanti casi si suicidano, quasi spinti da una forza oscura. Viviamo in una società avanzata ed emancipata che subisce questo ritorno a una condizione arcaica, che genera queste tragedie. Io attraverso le parole cerco di rendere visibile ciò che la società tiene nella scarsa visibilità.
Passiamo al capitolo dedicato alla scrittura, in cui spiega come nasce una storia o come si delinea un personaggio. Quanto è faticoso per lei il processo di scrittura?
Solitamente cerco di rendere l’inizio della mia scrittura attraverso una metafora pirandelliana: c’è sempre un personaggio che viene a bussare alla mia porta e a chiedermi di raccontarlo. Lo faccio entrare, lo invito a prendere un caffè, si racconta e poi lo faccio andare via, perché a dir la verità non tutti sono interessanti. Poi, però, se un personaggio mi chiede la cena, se mi chiede un letto e resta a dormire la notte, se mi chiede il caffè anche la mattina seguente insieme alla colazione… beh, allora in quel momento capisco che il personaggio può diventare protagonista di un mio libro! Credo che lo scrittore sia come un palombaro, che va nelle profondità marine dove non c’è luce, tira fuori dagli abissi misteriose creature che appartengono all’inconscio collettivo, e quando le porta in superficie, la gente le riconosce come proprie. Questo fa uno scrittore, o almeno – non parlo per me, ma in generale – un bravo scrittore. Le storie non valgono niente se non comunicano emozioni, e ciò si ottiene attraverso lo stile, quella che io chiamo la trama musicale. L’idea senza lo stile non va da nessuna parte, è come un’impronta digitale, bella o brutta che sia, ma assolutamente personale.
E Dacia Maraini ha un posto in cui preferisce scrivere?
Dacché vivo a Roma, oltre alla caoticità tipica di una grande metropoli (anche se abito in un piccolo appartamento all’ottavo piano, con le doppie finestre) ci sono sollecitazioni varie come compleanni cui andare, feste cui partecipare, il teatro, gli amici… per cui mi sono trovata un posto, un vero e proprio ritiro, Pescasseroli, un paesino in Abruzzo a 1200 metri d’altezza, con montanari chiusi, testoni, non facili da trattare, ma persone di grande generosità e con un certo rigore. Lì ho una piccola casa che dà sui boschi, da dove scendono i lupi che d’inverno è facile vedere. Ormai sono vent’anni che ho questa casa, ci vado quattro o cinque mesi all’anno, e lì ho scritto i miei ultimi dieci libri. Scrivo e basta. Ah, e faccio i puzzle: siccome cerco di evitare la televisione, dopo sette-otto ore di lavoro, mi dedico a questa passione scoperta da poco, ma solo puzzle di grandi quadri, perché destrutturare un’opera di Vermeer e poi ricomporla è davvero molto educativo.
Nel suo libro ci sono molte pagine dedicate alla sua amicizia con Pier Paolo Pasolini. Nel quarantesimo anniversario della morte, come vorrebbe ricordarlo?
Pier Paolo era una persona stranamente divisa: nella vita privata era di una mitezza, di una dolcezza, con quell’accento veneto e una voce sempre dolce (lo chiamavamo il “soave”). Ma quando scriveva, ecco che diventava duro, severo, e formulava i giudizi più aspri. Ai miei occhi prevaleva l’immagine di soavità, anche se – mi rendo conto – difficile da conciliare con l’immagine aggressiva e politica di chi lo conosceva per i suoi scritti. Eppure appartenevano alla stessa persona. Un giudizio critico e anche molto offeso si leggeva nella sua scrittura. Nella mitizzazione del proletariato come emblema dell’innocenza aveva investito tutto se stesso, e su tale mito aveva scritto i suoi primi romanzi, come Una vita violenta e Ragazzi di vita. Poi andò in crisi negli anni Settanta, con questo proletariato che improvvisamente vide corrotto dai valori della borghesia, e per lui fu una ferita. Una cosa che nessuno capisce è il suo eros, che molti hanno visto come pedofilia, allontanato dal partito comunista perché corruttore di bambini: conoscendolo bene – e se le capita di leggere Petrolio, lì si accorgerà che c’è tutto se stesso – si capisce quanto la sua omosessualità fosse curatela, maternità, gioco. E poi la morte misteriosa: il bugiardo del suo assassino disse che aveva reagito a una lite, che ci sarebbero state bastonate, ma Pelosi non presentava i segni di una colluttazione. Pier Paolo era forte, un fascio di muscoli e nervi, si allenava tutti i giorni, giocava a pallone, e in una lite si sarebbe difeso. Ma non aggrediva mai per primo. Appena sentimmo la confessione del suo assassino, noi amici capimmo subito che non poteva essere vera. Pino Pelosi ha poi ammesso che le cose non andarono così. Ma dopo quarant’anni ancora non si conosce la verità. Secondo me le circostanze misteriose della morte, oscena, terribile, hanno contribuito a farne un martire. E un paese cattolico come il nostro ha solitamente un atteggiamento riverente verso i martiri. Lui ha sempre pagato di persona, con il suo corpo. Fino alla fine. Le sue idee non si staccavano mai dal suo corpo, erano un tutt’uno. Il suo martirio è la ragione della popolarità di quest’uomo, di cui è assurdo che non sappiamo ancora chi l’abbia ucciso e perché sia stato ucciso.
Francesco Feola