Cinema anno zero
Dopo 120 anni dalla prima storica proiezione pubblica del 28 dicembre 1895 ad opera dei fratelli Lumière al Salon Indien del Grand Café di Boulevard des Capucines a Parigi, che per convenzione segna la nascita del cinema, la pellicola non entrerà più nelle sale cinematografiche, non sarà più il supporto sul quale verranno proiettati i film.
Siamo di fronte alla rivoluzione più importante della storia del cinema. Più importante dell’avvento del sonoro, del colore, del Cinemascope o delle prime forme di 3D, tutte innovazioni avvenute sempre in 35mm. I vecchi proiettori delle sale cinematografiche, per legge, sono stati sostituiti da quelli digitali che al posto delle bobine elaborano hard disk particolarmente affidabili e resistenti, contenenti il film raccolto in un pacchetto d’informazioni chiamato DCP (Digital Cinema Package), che viene decodificato in flussi audiovisivi digitali al momento della proiezione.
Le caratteristiche dello standard DCP sono state definite dal DCI (Digital Cinema Initiative), un’organizzazione costituita dai sette più importanti studi cinematografici statunitensi: The Walt Disney Company, Sony Pictures Entertainment, Metro Goldwyn Mayer, Paramount Pictures, Twentieth Century Fox, Universal Studios e Warner Bros. Pictures. Da notare che gli stessi fanno parte anche dell’associazione MPAA (Motion Pictures Association of America), la stessa che negli anni ’30 introdusse il “Production Code”, meglio conosciuto come Codice Hays, che regolava i criteri morali di censura dei film e che venne abbandonato solo nella metà degli anni ’60 a favore dell’attuale MPAA film rating system.
L’immagine cinematografica ha quindi perso l’elemento materico che l’ha sempre caratterizzata, la pellicola. Con la proiezione in digitale siamo passati dallo scorrimento del nastro, attraversato dalla luce del proiettore, ad un flusso di dati, di bytes, di impulsi luminosi, che “portano” l’immagine. Si tratta di un cambiamento traumatico ma inevitabile, di natura tecnologica ed economica. Mai prima di oggi il digitale, grazie a risoluzioni come il 4k e presto l’8k, aveva raggiunto la definizione della pellicola, considerando che quest’ultima ha una qualità che raggiunge tra le 8 mila e le 10 mila sfumature, laddove l’occhio umano ne percepisce 10 mila e una risoluzione in 4k arriva ad 8 mila. Inoltre il digitale permette, come ha già fatto per l’aspetto produttivo, di abbattere i costi dei processi distributivi, alleggerendo così sia le operazioni di consegna dei film, sia gli investimenti dei distributori.
Nel frattempo si sta già sperimentando un nuovo tipo di distribuzione, ancora più economico, che permetterà la proiezione in contemporanea di un film in differenti cinema attraverso una trasmissione dati in streaming via satellite. Il primo esempio in assoluto di un’operazione del genere è stata l’anteprima di Star Wars – Episodio II – L’attacco dei cloni (Star Wars: Episode II – Attack of the Clones, George Lucas, 2002) che non venne fatta nei cinema tradizionali ma bensì in sale attrezzate in grado di proiettare il segnale digitale del film captato via satellite mentre veniva trasmesso da una sede centrale in più cinema contemporaneamente. Un processo tipicamente televisivo, a pensarci bene, che allontana ulteriormente lo spettatore dal film in quanto oggetto, e che rende la fruizione sempre più “leggera” e dinamica, favorendo quel reomorfismo, quel «passaggio dal solido al fluido»1 di cui parla Berger a proposito della tendenza delle arti nel corso della loro evoluzione. Un allontanamento che in realtà è una convergenza tra medium e che non sorprende se si guarda al cinema come «un’arte più di tipo processuale che di tipo statico»2.
Possiamo ipotizzare che questa completa fluidità del cinema, raggiunta con la conversione digitale della fase distributiva, darà inizio ad un’epoca fatta di ricerche e sperimentazioni sulle ulteriori potenzialità del linguaggio cinematografico. Un cinema ancora più flessibile se si pensa che la classica “velocità dei film” a 24 fps, proprietà che più di tutte ha caratterizzato e distinto lo spettacolo cinematografico dalle altre forme d’intrattenimento, per la prima volta è stata superata dall’HFR (High Frame Rate) introdotta da Peter Jackson nel 2012 con il suo Lo Hobbit, che campiona la realtà a 48 fps con il risultato di una maggiore fluidità delle immagini.
Questo è forse uno dei tanti segnali che anticipano ciò che ci aspetta, che suggeriscono le potenzialità di questo cambiamento e che fanno pensare a un nuovo inizio, a un anno zero del cinema.
La pellicola nel frattempo non è morta, continua ad avere un ruolo. Anche se non è più richiesta per la parte produttiva e è stata allontanata dalla sala cinematografica, spetta comunque a lei il compito di conservare i film del passato. Custode del patrimonio cinematografico, ad oggi la pellicola è ancora la miglior via per preservare un film, compresi quelli girati in digitale. Inoltre da un paio d’anni sta aumentando la tendenza degli esercenti, con un buon riscontro di pubblico, di proporre nelle sale cinematografiche versioni restaurate di film classici che hanno saputo dare alla pellicola nuova luce.
C’è ancora qualcuno seduto nel buio della sala che si volta e guarda indietro, al passato, verso quelle pellicole che un tempo scorrevano nel proiettore.
1 René Berger, “Verso una metamorfosi emergente. Dall’onto-centrismo al ‘reomorfismo’”, in Bianco & Nero, n. 1-2, gennaio-agosto 2006, p. 29.
2 Lino Micchichè, “Il cinema come arte processuale”, Bianco & Nero, n. 1-2, gennaio-agosto 2006, p. 25.
Riccardo Frati
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