La Signora di Ravenna e l’Otello

Otello, la penultima opera composta da Giuseppe Verdi, dopo ben cinquantacinque anni di assenza, fa ritorno al Teatro del Giglio di Lucca, per di più nella prestigiosa produzione del 2013 del Ravenna Festival. La regia di questo importante allestimento reca la firma di Cristina Mazzavillani Muti e proprio lei, la Signora di Ravenna, ha acconsentito a svelarci alcuni segreti della realizzazione scenica e del processo creativo che ha portato alla nascita di questa produzione.

Il suo Otello nasce nel 2013 e, prima di arrivare al Teatro del Giglio, è stato ripreso lo scorso anno nella «Trilogia d’Autunno» che comprendeva Nabucco, Rigoletto  e naturalmente Otello. Perché tornare dopo cinque anni su questo titolo?
«Non c’era nessun’altra opera più adatta per seguire un percorso di vita verdiano, che è il fulcro della Trilogia. Il Nabucco ci ha restituito Verdi, che  all’epoca aveva cancellato la composizione dalla sua vita (o almeno pensava di averlo fatto) dato che i segnali ricevuti fino ad allora erano tutti negativi, sia nella vita privata sia nella vita di musicista: i due grossi insuccessi e i lutti familiari. Proprio il Nabucco ci ha restituito Verdi e la sua forza; quell’opera è la conversione e la resurrezione del compositore e contiene già tutti gli indizi del futuro Verdi fino al Falstaff. Si arriva quindi a metà del suo cammino con la Trilogia popolare (che è proprio la trilogia che l’ha incoronato “compositore del popolo”), di queste tre opere ho scelto quella che lui amava di più, non dimentichiamo che ha lasciato un manoscritto in cui diceva: “bruciate tutto quello che ho scritto, tranne il mio gobbo”; quel Rigoletto è stato un omaggio a ciò che Verdi – in fondo – preferiva.
Poi, dopo Aida, ci sono stati dieci anni di silenzio. Dieci anni che mi stupiscono: che silenzio poteva avere Verdi dentro di sé? Nessuno! Chissà quanta musica deve aver immaginato, chissà cos’ha ripetuto, cos’ha scartato, ridimensionato, sviluppato! Quel lungo silenzio di Verdi lo adoro perché lì mi sembra di vedere la sua immensa grandezza, non solo di musicista ma anche di uomo che sa rinunciare, che pensa a tutto quel che gli stava crescendo intorno, da Wagner a Bizet, ed è convinto che quella musica non abbia nulla a che vedere con l’Aida. Il lungo silenzio si è interrotto grazie a Boito che – intelligentemente – aveva capito che bisognava far leva su un grande poeta, sul Bardo che già lo aveva affascinato (si pensi al Macbeth) e ancora   lo affascinava: così nacque l’Otello. Dopo quest’opera ci fu un altro lungo silenzio da cui venne poi Falstaff e di cui Verdi stesso disse di averlo scritto per sé. Ecco le tre tappe ed ecco perché Otello, che ha impiegato lo stesso palcoscenico delle altre due opere.
La Trilogia nasce sempre come un progetto particolare: non è sempre Verdi e non è sempre lo stesso compositore. I titoli non vengono scelti a caso; l’idea è quella di dimostrare l’esistenza, a livello di emozioni,  di un filo conduttore, che porta a far sì che questi possano stare su di uno stesso palcoscenico con dei cambiamenti che sono soprattutto tecnologici. Nel caso di questo Otello, le emozioni sono date dal bianco, dal nero e dalla luce. Bagliori di armature, di spade, può esserci una luce rossastra o il fuoco che fa le sue faville (Fuoco di gioia!), ma sono semplici “varianti”, tutto resta inquadrato nel bianco, nel nero e nella luce. Questo Otello acquista quindi un peso maggiore se lo si compara con il Nabucco, con il suo retaggio biblico e archeologico, e con il Rigoletto, tutto improntato su un personaggio e mescolato ai meravigliosi affreschi del palazzo ducale di Mantova: tra il reale e il virtuale, tra luci e ombre».

Alla luce di questo, come definirebbe il suo rapporto con Giuseppe Verdi?
«Lo vedo come un Maestro: di vita, di musica (con la M maiuscola, beninteso!). Verdi è un punto di riferimento, un autore che – se sei buona, umile e innamorata – ti prende per mano e ti conduce, ti devi soltanto fidare. E sbagli meno!
Avendolo praticato abbastanza e avendolo studiato, non come cantante ma come regista (quindi ponendomi altri problemi), me ne sono innamorata. Se ne ero già innamorata da cantante, o come moglie di un direttore d’orchestra che ha praticato tanto Verdi, me ne sono innamorata nuovamente attraverso il lavoro di regia, attraverso uno scavo diverso da quello usato in precedenza».

Otello presenta una peculiarità: è un dramma shakespeariano traslato in musica. Questo pone delle problematiche al regista?
«Come dicevo prima: se ti fai prendere per mano dal compositore e lo sai leggere, ti accorgi che il suo grande sforzo di compositore è stato di interpretare quella parola, quel momento preciso, quella personalità di volta in volta cangiante… È difficile nel senso che si può sempre sbagliare, però ti aiuta a individuare la strada giusta e ne esci arricchito; per questo è così interessante. Seguire il compositore è una strada simile alla fede».

Parlando di lei che cura la regia di un’opera verdiana è impossibile non domandarsi se c’è una qualche influenza del M° Muti sul suo approccio a questo titolo.
«Per forza. Tutta la vita accanto a un artista di quel genere. Io stessa ho smesso di cantare, di suonare, di fare la mia vita personale per seguirlo e aiutarlo, nel senso di rendere – se possibile – meno difficoltoso un cammino. Nel frattempo quello che ho fatto è stato essere presente a ore e ore di prove: ho visto i più grandi cantanti, i più grandi solisti, i più grandi registi (da Strehler, a Ponnelle, a Ronconi, per non fare che degli esempi). Il mio è stato un lavoro di riempirmi, non avendo più niente di personale, di tutto il bello e dell’interessante che mi veniva da quel mondo. Certo che mi sono fatta influenzare, credo di essere cresciuta così, forse molto di più rispetto a quanto mi aveva dato il conservatorio: non avendo una mia esperienza personale in materia, ho fatto in modo che quell’esperienza di vita così densa fosse anche la mia esperienza di vita. Sono stata molto influenzata sotto il profilo dell’impostazione, molto seria e rigorosa, ma sono molto libera nell’esprimermi; non mi piace nemmeno chiedere il parere: non voglio infragilirmi e soprattutto ognuno deve mantenere la propria linea con forza e con coraggio, così come la propria personalità, altrimenti non funziona. Non puoi imitare nessuno e non puoi vestirti d’una grandezza che non ti appartiene.
Nella mia vita c’è stato anche un altro aspetto che mi ha influenzata perché vengo da una scuola di piccolo teatro, quello dei burattini: quando avevo sette anni non facevo altro che montare teatrini, vestire burattini. C’erano quattro medici – quattro matti! – che la domenica partivano con questa baracca (è proprio il caso di dirlo: baracca e burattini) e si andava in certi posti disgraziati: vuoi l’alluvione del Polesine, vuoi le infanzie abbandonate, i ricoveri degli anziani abbandonati, insomma di andava dove, come diceva mio padre, c’era bisogno. Prima di ogni spettacolo i quattro medici visitavano gli indigenti: se lo spettacolo era alle 18, alle 15 i pazienti si segnavano per le visite mediche gratuite. C’era mio padre, dentista, che prima degli spettacoli curava chi aveva mal di denti, c’era Benigno Zaccagnini, pediatra, che visitava i bambini ammalati, gli altri due erano medici generici. Io, invece, ero la bambina tuttofare. Non ho mai smesso di amare quel mondo e non l’ho mai tradito, tanto che quei burattini li ho ancora tutti in casa: sono più di seicento, con tutti i costumi di scena, assieme a sei o sette teatrini».

Lei ha esordito proprio in questo Teatro come cantante negli anni ’60; poi, nel tempo, è sempre tornata qua portando le sue regie: Falstaff nel 2013, Così muore Mimì e Mimì la civetta nel 2016 e adesso Otello. Cosa la lega a Lucca e al suo teatro?
«Evidentemente Lucca e Ravenna si vogliono bene perché organizzano cose insieme (non solo mie). Lucca è una città sorella con cui è bello lavorare. Personalmente, quando il Teatro del Giglio mi chiamò per Falstaff mi ricordai che Lucca era stata proprio una delle prime città a offrire a una ragazzina appena diplomata al conservatorio la possibilità di un concerto. Venni qua per una serata organizzata dagli Amici della Musica con un programma che nella prova parte aveva gli spirituals in cui cantavo, recitavo, traducevo ciò che cantavo… avrei anche voluto accompagnarmi ma pensai che fosse troppo, quindi mi feci accompagnare da un’amica del conservatorio. Nella seconda parte del programma, invece, c’erano Schubert e Schumann. Fu un bel concerto. Ricordo che un signore di qui scrisse “tenete d’occhio questa ragazza!”».

Per alcuni, Otello ha dimensioni troppo vaste per un teatro come il Giglio; lei è d’accordo?
«No. Se uno prende l’Otello dal punto di vista spettacolare, per me ha sbagliato di grosso. Anzi, Otello (a parte la tempesta iniziale, che comunque passa nel giro di sette minuti) ha un profondo e cameristico studio dei personaggi. Non è un caso che si passi da Otello a Falstaff. Se si pensa, invece, a com’era il teatro di Shakespeare, allora capisce che più lo spezio è piccolo, più l’occhio e l’orecchio del pubblico sono vicini ai cantanti. Tra l’altro questo luogo è fascinosissimo ed è stranamente piccolo. Non riesco a spiegarlo meglio di così, ma questo teatro non è piccolo, è stranamente piccolo: c’è tutto quello che serve, lo spazio e l’acustica sono così particolari che si avvicinano molto a quel che voleva Verdi».

Lei conta di proseguire la sua frequentazione del Teatro di Lucca?
«A Lucca vengo davvero volentieri: stamani ho avuto modo di visitarla ed è splendida. È come prendere il meglio dell’Italia, concentrarlo e ritrovarcisi. Lucca mi ha anche permesso di fare un esercizio particolare con Così muore Mimì: un conto è chiedere l’Otello, ma dare carta bianca con uno spettacolo che non si sa neanche cosa sia non è affatto comune e sono davvero grata alla città e al suo teatro di aver avuto questa possibilità, soprattutto se si considera che qui aleggia ancora ovunque lo spirito di Puccini e infatti questo spettacolo l’ho fatto solo a Lucca».

Photocredit: Silvia Lelli.

lfmusica@yahoo.com

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