Otello: frammenti di una prova

Le luci sono accese. Nella sala grande del Teatro del Giglio ci sono poche persone sparse qua e là, senza un ordine preciso: alcuni tecnici si spostano di continuo tra le file rosse, una cantante tiene gli occhi fissi sullo schermo del suo cellulare sprofondata in una poltrona, accanto a lei – in costume – sta in piedi Jago. Al momento non c’è traccia di Otello. A metà della platea, al centro della fila, c’è il gruppo di Ravenna. Mi viene indicata la figura centrale, un caschetto dalla nuance blu elettrica: Cristina Mazzavillani Muti siede tra altre due persone mentre il suo assistente le sta di fronte, in piedi.

Il suo è uno di quei nomi che impari a conoscere fin da subito frequentando il teatro d’opera: lo leggi sui giornali, sui libri, vederla a nemmeno dieci metri di distanza fa una certa impressione. Mi viene detto di attendere lì, in fondo alla platea, mentre vanno a domandare alla Signora di Ravenna se ci possiamo presentare. Mentre aspetto, osservo la scena: sul palcoscenico si sta allestendo il “suo” Otello, una visione dominata dal nero, monocroma, screziata da improvvisi bagliori di luce e squarci di bianco; basta un’occhiata per capire che in questo allestimento si è eliminata ogni pretesa di grandiosa esibizione muscolare, ricercando piuttosto una rigorosa essenzialità. La scenografia è lineare, ieratica, attende solo di essere animata dagli attori e dalla luce. 

Mi fanno cenno di avvicinarmi alla signora Muti; quando mi vede si alza in piedi e mi porge la destra: «Cristina Muti», così si presenta. Mi avvisa fin da subito che oggi proveranno soltanto il secondo e il quarto atto. «Il primo e il terzo – mi spiega – li abbiamo già lavorati ieri. Vorrei poter provare di più, ma il tempo è tiranno!». Abbiamo tempo di scambiare qualche parola prima che inizi la prova; naturalmente l’argomento principale è Verdi: parlando di Verdi e del suo teatro si anima, dimostra una fortissima ammirazione per il Cigno di Busseto, tanto come compositore quanto come uomo di teatro. Parla di Shakespeare e del teatro elisabettiano, mi racconta del suo Falstaff: «Della sua ultima opera Verdi disse di averla scritta per sé e di averla immaginata per la sua casa. Da qualche parte ha scritto “vedevo le fate uscir fuori dal mio laghetto”, allora quando ho dovuto preparare la regia di Falstaff sono andata a villa Verdi e ho fotografato proprio quegli spazi che lui stesso aveva associato all’opera». Le domando dell’Otello, se è contenta della sala grande del Teatro del Giglio e senza esitazione mi risponde che per come ha inteso l’opera e ideato l’allestimento non può esserci spazio migliore. «In molti – continua – diffidano del portare un’opera “grande” come l’Otello in uno spazio così piccolo, ma non sono assolutamente d’accordo: se si pensa che viene dal teatro elisabettiano, che si faceva letteralmente in qualsiasi posto purché avesse una pedana (nemmeno un palco!), allora è chiaro che uno spazio più intimo rende l’opera più naturale, riportandola alle sue dimensioni originarie. Avvicinando il pubblico a chi canta si vede ancor di più come la musica rispetta la drammaturgia di Shakespeare e come Verdi ha fatto di tutto per vestire la parola, per renderla protagonista del suo dramma in musica, era un autentico genio il Grande Vecchio!».

Luca Micheletti (Jago)

La prova d’assieme sta per iniziare e la signora Muti mi invita a prendere posto. Nello stesso tempo, dal fondo della sala, arrivano dei ragazzi, studenti del liceo musicale di Lucca che assisteranno alla prova. Le luci – finalmente – si abbassano e l’orchestra fa il suo ingresso in buca. La compagine è valorosa – nientemeno che l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, fondata nel 2004 dal Maestro Riccardo Muti – e la bacchetta che la guida è di altissimo profilo, vale a dire il M° Nicola Paszkowski. Sin dalle prime battute, quelle cupe terzine in forte, si avvertono una compattezza nell’orchestra e un piglio nel suo direttore che raramente si trovano anche in orchestre ordinarie; si sente che l’opera è già ben rodata, e grazie tante, ma quello che esce dalla buca non è una routine o un lavoro meccanico, piuttosto si tratta di un testo ormai ben interiorizzato e interpretato con totale consapevolezza. Prima di iniziare la prova il M° Paszkowski si è rivolto ai ragazzi presenti spiegando che, essendo un semplice assieme, gli interpreti canteranno a mezza voce oppure accenneranno semplicemente la propria parte (normale procedura a quasi ventiquattr’ore di distanza dallo spettacolo), eppure Jago – che qui ha le fattezze di Luca Micheletti – lo si capisce subito che sarà uno dei punti forti della rappresentazione: il suo blasfemo Credo è da far tremare i polsi e la sua voce, di insolita cupezza per essere un baritono, lo rende virtualmente perfetto per interpretare l’archetipo dell’ingannatore.

Con i personaggi e le luci la scena inizia a rivelare la sua vera natura. La rappresentazione sotto alcuni aspetti è quasi stilizzata, per certi versi simile a un teatro di marionette: in scena esiste solo quello che è necessario, tutto il resto viene escluso senza possibilità d’appello. Solo in questo modo l’autentico messaggio della drammaturgia può essere efficacemente veicolato e solo così il pubblico ne può fruire in modo puro e senza filtri. La regista si sposta in continuazione avanti e indietro, facendo la spola tra la postazione dei tecnici delle luci e la buca: tutti gli attori sono perfettamente istruiti e preparati, in questa prova non abbisognano di grosse indicazioni, l’aspetto su cui la signora Muti si concentra maggiormente sono le luci. Come è noto, lo spettacolo è stato creato per il Ravenna Festival e in una sede particolare come quella del Teatro del Giglio necessita di un accorto lavoro di adattamento. Cristina Mazzavillani Muti dirige gli interventi dei tecnici delle luci con gentile fermezza: sa esattamente cosa vuole e non spreca tentativi e accorgimenti per giungere al risultato che ha in mente. La prova di questo secondo atto prosegue spedita, senza intoppi di sorta. Ci si sofferma un paio di volte sul coro Dove guardi splendono raggi e sull’ingresso dei fanciulli (T’offriamo il giglio soave) alla ricerca del delicato equilibrio tra coro, orchestra e il curioso mandolino d’accompagnamento. Già alla ripresa il colore è decisamente mutato. Segue una breve pausa: in questi momenti si cerca la sistemazione migliore per il mandolino, i macchinisti provvedono ai cambi per il quarto atto e la signora Muti, insieme al direttore artistico del teatro Aldo Tarabella, incontra gli studenti del liceo musicale. Risponde volentieri alle domande e non si fa certo pregare per spiegare, seppur brevemente, alcuni aspetti del suo allestimento dell’Otello.

Da sinistra: Mikheil Sheshaberidze (Otello) e Luca Micheletti (Jago)

Il quarto atto, dove l’inganno di Jago giunge alle sue estreme conseguenze, è quanto di più spartano si possa immaginare, con solo il letto di Desdemona, tre ceri e un’unica pennellata che tinge di nero tutto il resto della scena. In questo ultimo atto le simbologie adottate dalla regista sono, nella loro grande semplicità, di forte impatto emotivo: il nero opprimente interrotto solo dal bianco del letto di Desdemona, dove il bianco è la purezza ma anche la morte, è eros e thanatos, i ceri di aspetto funebre e l’inquietante sagoma di Otello che si staglia nella luce fioca di una notte a Cipro. In questa prima parte dell’epilogo dell’opera tutti gli occhi sono puntati su Desdemona. Elisa Balbo è straordinaria: una diafana visione che ammalia il pubblico colla sua Canzone del salice e, soprattutto, colla splendida Ave Maria. In questo canto conclusivo (il termine «aria» appare qui così riduttivo) è mirabile il connubio tra l’orchestra e la solista: il M° Paszkowski cava dagli strumentisti della Cherubini colori davvero molto interessanti, dimostrando grandissima attenzione per ogni minimo particolare. Dopo, è proprio il caso di dirlo, il canto del cigno di Desdemona, appare Otello, folle per il dubbio instillatogli da Jago. Il georgiano Mikheil Sheshaberidze non pronuncia una parola, preferisce serbarsi per la sera della prima, eppure la sua presenza scenica è tale da essere sufficiente per rendere perfettamente la tragica atmosfera del ben noto epilogo. In quest’ultima sezione dell’opera Cristina Muti evoca sensazioni hitchcockiane: tutto si muove con estrema eleganza, senza strepiti o clamori, con una delicatezza affascinante.

Al termine non c’è alcun sipario: le luci si accendono, ci sono ancora degli aspetti su cui si intende lavorare, inizia di nuovo l’andirivieni dei macchinisti e dei tecnici. In scena non c’è nessuno, solo il letto candido. All’improvviso si accende una luce puntata proprio sul letto, evidentemente stanno ancora cercando la soluzione più efficace. Mi si avvicina Cristina Muti e mi dice: «Vedi? Basta la luce giusta e la scena vive già da sola, senza che nessuno stia sul palco». Si gira verso uno dei tecnici e dice: «Questa va bene. Salvala».

Elisa Balbo (Desdemona)

 

Photocredit: Andrea Simi

lfmusica@yahoo.com

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