Intervista a Massimiliano Civica

Un quaderno per l’inverno di Massimiliano Civica arriva a La Città del Teatro

CASCINA – Massimiliano Civica (Rieti, 27 febbraio 1974) è uno dei registi più influenti sulla scena del teatro italiano contemporaneo: tra le altre cose, animatore di compagnie indipendenti, per tre anni direttore del Teatro della Tosse di Genova e per tre volte vincitore del premio Ubu per la miglior regia teatrale, nel 2008 con Il Mercante di Venezia, nel 2015 con l’Alcesti di Euripide e nel 2017 con Un quaderno per l’inverno.

Sabato 23 febbraio è venuto a presentare proprio quest’ultimo lavoro – per il quale al drammaturgo Armando Pirozzi è stato pure assegnato il premio Ubu per il miglior testo teatrale dell’anno – a La Città del Teatro di Cascina e abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.

Uno dei temi centrali di Un quaderno per l’inverno riguarda il potere della parola e della poesia, la loro capacità di scuoterci, di “risvegliarci dal coma”: uno dei due protagonisti è un ladro la cui moglie, in coma in ospedale, mostra inattesi segni di reazione quando le vengono lette delle poesie scritte dall’altro protagonista, che è un professore di letteratura. Però noi viviamo in un periodo in cui le parole vengono anche usate per dividere, per creare nemici, per generare odio. La vostra è una professione di ottimismo e di speranza nel valore positivo della parola, o una vera convinzione circa la nostra capacità di ascoltare parole e trarne valori positivi che ci aiutino a vivere e a crescere?
«Secondo me sono un po’ fuorvianti la parola “cultura” e la parola “letteratura”, nel senso che sembrano star lì un po’ come delle ipotesi. In realtà le poesie, i testi scritti, i testi teatrali sono cose che ci hanno lasciato altri uomini come noi, ma più intelligenti e migliori di noi, che hanno voluto condividere qualcosa che ci riguarda tutti. Io sono convinto che sul piano dei sentimenti siamo tutti uguali, ad esempio sono convinto che Dante aveva i miei stessi sentimenti: è stato innamorato, aveva paura di morire, credeva nell’amicizia… allora io credo che questo sia il persistente dell’umano, nel senso che per quello che riguarda l’umano non c’è progresso, c’è solo evoluzione. Il cellulare di oggi è incredibilmente più progredito di quello di vent’anni fa, mentre per gli esseri umani questo non succede. Saremo sempre alle prese con il problema della morte, di capire perché siamo qui, dell’amore, dell’amicizia, della paura di star male. In questo senso io credo che la parola, come testimonianza di uomini che hanno vissuto prima di noi e che sono stati più grandi di noi, è una sorta di lasciapassare o di portafortuna per cercare di aprirci agli altri, di capire che siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti esseri umani, e per far nascere una comprensione. Infatti nello spettacolo attraverso la parola, attraverso la poesia due persone diversissime, che sono un ladro e un professore di letteratura, entrano in contatto perché si rendono conto che c’è un qualcosa che li riguarda entrambi, e questa cosa al di là delle differenze di classe è l’umano che è in ognuno di noi».

Civica

Anche il teatro ha questa componente magica, quasi spirituale, di riuscire a mettere in contatto persone diverse nel momento in cui ci si riunisce tutti insieme in un luogo – autore, regista, attori e pubblico – e per convenzione si stabilisce che quello che succede sul palco per un momento è la vita, e sul palco si raccontano e ascoltano storie. Però viviamo in un periodo in cui la mercificazione domina sopra tutto, dove tutto è business, e la cultura e il teatro in particolare non si prestano certamente a fare soldi… Eppure, nonostante questo, il teatro continua a sopravvivere. Dipende dal fatto che più o meno inconsciamente di quella magia sappiamo di avere bisogno per vivere?
«Bisogna capire che cosa è la cultura, che cosa significa essere umani. Il nostro “essere umani” nasce perché si va contro la legge di natura, nel senso che la cultura e la civiltà si fondano sullo spreco. Che cosa intendo dire? Che è inutile mantenere in vita i vecchi, eppure noi li manteniamo in vita; che dal punto di vista della legge di natura è uno spreco tenere in piedi dei centri di assistenza per malati mentali, o fare i passaggi per i disabili sui marciapiedi, perché sono economicamente inutili, comportano più costi che benefici: ma è proprio nello spreco, nel gesto non necessario, che si costituisce l’umano. E allora dobbiamo smetterla di pensare che la cultura debba produrre profitto economico. In che capitolo di bilancio lo mettiamo il fatto che un uomo diventa migliore? Va aggirato completamente il ragionamento: la cultura non deve produrre profitto, la scuola non deve produrre profitto, gli ospedali pubblici non devono produrre profitto. Cultura, scuola, ospedali devono produrre benessere umano. Vorrei ricordare a tutti che comunque si muore: uno può morire più o meno ricco, ma comunque muore. Perciò la domanda che andrebbe fatta ai nostri politici è: perché si vive? Se si risponde a questa domanda allora si capisce che la cultura, la musica, la sanità pubblica sono fondamentali. Il teatro rimarrà vivo per sempre, finché ci saranno gli uomini ci sarà teatro perché, come dice Blaise Pascal, alla fine l’unica cosa che interessa veramente all’uomo è l’uomo. E quindi un luogo dove gli uomini s’incontrano e condividono delle esperienze, dove riflettono su di sé esisterà finché esisterà l’uomo».

Lunga vita al teatro dunque! E parlando di teatro e di uomini di teatro, tu hai vissuto una parte della tua esperienza formativa con Eugenio Barba all’Odin Teatret. Barba è uno dei grandi del teatro contemporaneo, ma ben poco conosciuto in Italia. Vuoi dire due parole su questa esperienza e su come ha influito nello sviluppo successivo del tuo lavoro? 
«Quello per cui l’Odin e Eugenio Barba possono aver influito sul mio lavoro è la capacità di soffrire e trovare i mezzi per sopravvivere – sia economici sia di altro tipo – in vista di un obiettivo. Loro hanno la forza, in vista di un obiettivo – che è il loro modo di far teatro – di creare strategie di sopravvivenza…e anche di mascheramento. Se vuoi è stata una lezione di vita: se credi in qualcosa, fai di tutto per poterla fare».

Tu hai sottolineato spesso il valore della condivisione in teatro, la condivisione del lavoro con autori e attori e poi con chi lo viene a vivere da spettatore. In particolare stai condividendo buona parte del tuo impegno teatrale con Armando Pirozzi, che ha scritto i testi del Quaderno per l’Inverno come di altri lavori che avete fatto e state facendo insieme. Puoi raccontarci brevemente come funziona la vostra collaborazione? Le idee per un nuovo spettacolo nascono da intuizioni che sviluppate insieme?
«La collaborazione varia molto, ma secondo me funziona al meglio quando è lui che mi propone un testo che ha scritto in totale autonomia – io in genere non so neanche che cosa sta scrivendo… Ciò che funziona al meglio è l’incontro di due autori, ognuno autonomo. Il momento in cui io mi trovo di fronte a un testo di Armando cui non ho partecipato a livello d’ideazione è il momento in cui scatta maggiormente l’ascolto e la fusione tra noi due. Molto spesso per collaborare bene non è necessario collaborare in tutte le fasi del lavoro».

Voi venite a presentare questo lavoro a Cascina, che è un paese storicamente caratterizzato dalla presenza di laboratori artigianali, in particolare nel settore del legno e del mobile. L’artigianato artistico ha sofferto molto la crisi negli ultimi anni, a Cascina come altrove, ma rimane uno dei motivi per cui l’Italia è apprezzata nel mondo. Secondo te, il teatro conserva pure lui una sua dimensione artigianale oppure – come sembra accadere sempre di più nel mondo dello spettacolo – è ormai un “prodotto” costruito industrialmente applicando tecniche più o meno standardizzate?

«Secondo me nel teatro quest’aspetto di artigianalità c’è, anzi io direi che il teatro è un’arte applicata, nel senso che è un’arte che tu impari facendo e che, come tutte le arti applicate, deve rispondere immediatamente a una funzione. Il tavolo fatto dal falegname dev’essere stabile e solido perché tu ci devi posare delle cose sopra; uno spettacolo teatrale non deve annoiare e deve divertire: la sua funzione è di far star bene le persone per un’oretta, un’oretta e mezzo. Dopo possiamo discutere di tutto, ma la prima funzione dell’artigianato teatrale è di non annoiare. Io mi sento totalmente artigiano, e sono pure convinto che il teatro non sia arte pura. In teatro non si può fare un’opera d’arte».

CivicaProbabilmente quello che fa di un regista un buon regista, o di un artigiano un buon artigiano, è la capacità di imprimere un proprio segno unico, ben eseguito e distinguibile ai lavori che ci presentano, ma senza mai mettersi in evidenza a discapito di quegli stessi lavori. Nei casi migliori, Il loro segno è presente e percepibile, eppure allo stesso tempo quasi invisibile. In quello che Massimiliano Civica dice e fa questa capacità è evidente. La sua messa in scena di Un quaderno per l’inverno è così semplice e delicata che “sembra quasi che non ci sia”: eppure invece c’è, apporta un carattere forte allo spettacolo e sostiene senza sbavature il testo senza mai pestare in alcun momento i piedi alla storia che ci viene raccontata. Le battute sono brevi e precise, come se anche Armando Pirozzi avesse lavorato in sottrazione, in distillazione (termine quanto mai appropriato, visto che gli attori dopo lo spettacolo ci hanno rivelato di non entrare mai sul palco senza aver prima bevuto un bicchierino di grappa…) in perfetta sintonia con il regista. Gli interpreti – Luca Zacchini nella parte del ladro e Alberto Astorri in quella del professore – sono lasciati liberi di dare ogni sera l’intonazione che preferiscono alla loro recitazione e si dimostrano ispirati e perfettamente immedesimati, regalandoci commozione, disillusione, cinismo, timide speranze e anche momenti di stralunata comicità. Tutta roba che ha a che fare con la vita, con le nostre vite, e quindi emozioni che ognuno degli spettatori può a modo suo condividere.

Nel suo intervento dopo lo spettacolo, il regista Massimiliano Civica ha sottolineato l’aspetto della verticalità del teatro: ci si ritrova intorno a un palco, autore dei testi, regista, attori e spettatori, ma a “parlare” siamo tutti e nessuno, forse a parlare è piuttosto l’umano che viene evocato su quel palco, una voce “terza” che è proprio quella che rende, come Civica sostiene nell’intervista, l’esperienza del teatro eterna e in qualche modo spirituale. Nella sua semplicità, lo spettacolo che ci hanno presentato a Cascina quella voce “terza” ce la fa avvertire. E in fondo, di un quaderno su cui scrivere poesie in attesa che l’inverno passi ne abbiamo bisogno noi e ne ha bisogno l’Italia, un paese che sta attraversando un inverno che non è purtroppo solo stagione meteorologica.

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