LUCKY – La solitudine americana, negli occhi di Harry Dean Stanton

                        LUCKY: Il testamento di un grandissimo attore.

L’avevamo visto sbucare fuori dal deserto col suo viso lungo e scavato e l’espressione stralunata di chi è un po’ qui e un po’ altrove, e tutti c’eravamo chiesti: ma questo qui da dove arriva? Era il 1984, il film era Paris, Texas di Wim Wenders – se lo ricorderà meglio chi ha girato la boa dei cinquanta – e lui era quel tipo di attore che si potrebbe definire un “caratterista di culto”. Un attore scomodo, indipendente, indifferente alla fama e al glamour di Hollywood, molto amato da registi del calibro di Peckinpah, Coppola, Scorsese, Arthur Penn, Ridley Scott e David Lynch e molto odiato da chiunque dovesse recitare la parte del protagonista accanto a lui, perché capace di calamitare su di sé l’attenzione degli spettatori grazie a una presenza fisica a dir poco magnetica. In Lucky, del regista John Carroll Lynch (nessuna parentela con il già citato David, che peraltro recita – e decisamente bene – nel film), pellicola del 2016 ora in uscita nelle nostre sale, lo vediamo scomparire di nuovo nel deserto e l’unico motivo per cui non ci chiediamo: ma questo qui adesso dove va?, è che stavolta dove va lo sappiamo benissimo. La domanda che con questo suo ultimo lavoro Harry Dean Stanton fa prima di tutto a se stesso e poi a noi è piuttosto: che fare quando ti accorgi che stai arrivando al capolinea della tua vita? E ci regala anche una possibile risposta, con grazia e leggerezza straordinarie, nell’intensa e a mio avviso indimenticabile scena di chiusura del film.

Lucky è un novantenne che vive solo (“vivere da solo è una cosa, sentirsi solo è un’altra” tiene comunque e con buone ragioni a precisare) in un piccolo paese dimenticato da Dio e dagli uomini ai confini con il deserto (la pellicola è stata girata a Piru, cittadina storica di duemila anime nel sud della California, e nel deserto di Cave Creek in Arizona). È autonomo, indipendente, abituato a pensare e fare di testa sua, insofferente alle regole, ateo e rigorosamente fedele alle sue abitudini, tra cui rientra un irrinunciabile pacchetto di sigarette giornaliero. La telecamera di Lynch lo segue con malcelata tenerezza nella sua routine quotidiana, disegnando en passant un piccolo e toccante affresco della vita all’estrema periferia dell’impero americano, dei personaggi che la popolano e del senso di solitudine che attraversa le loro esistenze – esemplare da questo punto di vista il personaggio di Howard (David Lynch) che ha come migliore amico e compagno di vita una testuggine centenaria cui intende lasciare tutti i suoi averi ma che lo abbandona approfittando di un suo attimo di distrazione. Lucky vive con serenità la metodica ripetizione degli eventi quotidiani, lasciandosi solo in rari momenti prendere dalla nostalgia per il passato – una nostalgia espressa magistralmente da Harry Dean Stanton, attore capace come pochi di trasmettere con uno sguardo emozioni profonde e complesse – e senza mai riflettere sugli anni che si porta sulle spalle. Un giorno però una caduta in casa lo mette di fronte alla realtà dei fatti: il suo corpo inizia a cedere e Lucky dovrà cominciare a prepararsi ad affrontare l’epilogo cui sono destinate tutte le nostre vite.

Lucky è dunque un film sulla vecchiaia (“negli USA succede spesso che le persone trattino gli anziani come se fossero invisibili, è una cosa che non capisco”, ha dichiarato il regista in un’intervista), sulla nostra inconfessabile paura della morte e sul difficile ma possibile superamento di quella paura; è però in primo luogo e soprattutto un tributo in vita a un grandissimo attore. Harry Dean Stanton qui recita se stesso, anche se è bravissimo a farci credere di no e a far finta di recitare davvero la parte di un vecchio cowboy dell’Arizona. Il resto del cast lo accompagna con ispirata naturalezza e con la chiara coscienza di non essere lì per girare un film qualunque, ma per rendere omaggio a un grandissimo artista arrivato al suo ultimo passaggio sotto i riflettori. La colonna sonora, tra cui risaltano una “I see the darkness” di Johnny Cash destinata a far venire i brividi e una commovente “Volver, volver” cantata dallo stesso Harry Dean Stanton, coglie perfettamente, tra folk messicano e musica country, lo spirito del luogo che fa da scenario alla storia. I dialoghi sono precisi, coerenti, leggeri quando serve e profondi fino alla commozione quando è giusto che lo siano (quello tra Lucky e il vecchio Marines come lui reduce dalla guerra nel Pacifico – uno straordinario Tom Skerritt, altro caratterista di prim’ordine – è un pezzo di bravura da far accapponare la pelle) e contribuiscono non poco a rendere il film quel piccolo gioiello che è. Non è un capolavoro, Lucky, ma è un film profondo e delicato, molto ben scritto, molto ben diretto e molto ben recitato. In pratica, l’esatto contrario di un blockbuster: Lucky è un film in cui non succede mai niente, ma che per qualche misterioso motivo ti entra dentro e lì rimane.

Harry Dean Stanton è morto a 91 anni per cause naturali, pochi mesi dopo aver terminato di girare Lucky. Il film non ha fatto in tempo a vederlo. Ormai era troppo debilitato per muoversi e gliene avevano perciò inviato una copia a casa, ma per lui quel film poteva e doveva essere visto solo al cinema e si è rifiutato di guardarlo in televisione: anche questi sono dettagli che descrivono un uomo. “Era davvero vecchio e decrepito quando abbiamo girato il film – ha dichiarato il regista – però se si ritrovava davanti una donna sembrava che avesse di nuovo quarant’anni”. Vivere la vita fino in fondo e senza mai lasciare che niente e nessuno decida per te: questa la ricetta per andarsene via serenamente che Harry Dean Stanton ci lascia in eredità con questa sua ultima, toccante prova d’attore. Una ricetta per niente facile da mettere in pratica – questo lo sappiamo bene tutti – ma che con lui ha senza dubbio funzionato. E forse anche per questo il nostro applauso per questa sua uscita di scena in totale e assoluta bellezza se lo merita proprio.

 

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