L’origine del comico, e della parente più aggressiva satira, è nella commedia degli antichi Greci, che altro non era che il kòmos, un un corteo rituale di giovani eccitati dal vino che indirizzavano canti pieni di ‘frizzi e lazzi’ verso i passanti. Una presa in giro rituale resa sacra dalle bevande alcoliche. Una beffarda contumelia verso la normalità e i comportamenti ossificati, per andare contro i quali occorre un po’ di coraggio. Il vino scalda i cuori e scioglie la lingua. Il comico fa ridere e mette in ridicolo le consuetudini trite. La satira deriva dalla letteratura comica, si mescola con essa, ne esalta i toni, esagera a volte, si fa crescere i peli sulle gambe da caprone, per possedere ninfe indifese nei boschi. La satira si è rivolta contro il potere per farsi satira politica. Ridere dei potenti che governano la città può essere più forte dell’uso della retorica. Far ridere suscita consenso e il comico professionista raccatta grande consenso, a danno dei politici incomprensibili persi a correre dietro utopie contrarie al senso comune. Comico e politico sono le due facce della necessità di governare la città, la polis, la cosa comune.
Nel 1515 Thomas More dette alle stampe la sua opera più famosa, l’Utopia. Il suo scritto aveva già nel titolo una umoristica contraddizione: Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova Insula Utopia. L’ottimo stato della cosa pubblica era già messo in ridicolo dubbio dal fatto che nella lingua inglese di More il nome grecizzante di Utopia corrisponde a due parole greche diverse ou-topos (luogo che non esiste) e eu-topos (luogo felice). E’ come dire che lo Stato perfetto esiste solo in un luogo inesistente. Oppure che lo Stato perfetto esiste in un luogo sperduto da qualche parte, difficile da raggiungere, o forse esistito nel passato. Pertanto Thomas More parte e viaggia alla ricerca di Utopia.
Era un comico anche Ulisse, allora, partito alla ricerca di isole felici, trovando magari la maga Circe che tanto lo amava da volerlo trasformare in maiale, insaziabile divoratore onnivoro. Seppure ‘comico’, Ulisse sente la nostalgia di casa e del comodo letto di Penelope. Filosofi e politici antichi credevano fermamente che la felicità, e il suo luogo, esistessero o in qualche parte del mondo, o in qualche parte del tempo, indietro nel passato, avanti nel futuro. Ebbene, la satira sembra proprio lo sberleffo dei comici contro le promesse di futura felicità, fatte da politici governanti e preti benedicenti. Promesse di vita eterna in Paradiso, ma dopo la mrte, e promesse di vita migliore e progressista, illuminata da un Sol dell’avvenire molto lontano nel tempo.
Le promesse non son atti concreti, dice la satira di ogni epoca; l’impegno dei potenti di dare felicità al popolo è stato ed è deriso e sbeffeggiato. Il comunismo è morto, il socialismo pure, la comunanza cristiana è gracile, la socialdemocrazia cresce stenta solo in luoghi europei molto freddi. Andateci voi! due ore di luce al giorno, durante l’inverno. Vogliamo la luce, perfino quella che ci abbaglia la vista con l’utopia-Europa. Il cui nome significa letteralmente ‘dagli occhi belli’, ‘dagli occhi grandi’, organi cardine della bellezza femminile, greca ed europea. Il contemporaneo realismo beffardo sta soppiantando inesorabilmente l’utopia di un’Europa unita, luminosa e felice.
Il filologo classico Luciano Canfora ci ha messo in guardia da tempo, piantando un paletto nel 2014, anno del suo La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, edito a Bari da Laterza. Il succo del discorso è che il filosofo Platone ha la peggio contro il beffardo Aristofane nel pensare che l’utopia comunista contenuta nella sua Repubblica si possa realizzare. L’errore di Platone è quello di spiegare il comunismo come la ‘comunanza delle donne’, cioè che non esiste più la proprietà privata di una moglie, ma che le donne siano messe in comune. Non è sufficiente ricordare che le donne tra gli antichi Greci non avevano diritti e non votavano. E’ troppo facile per Aristofane scatenare la satira contro l’incauto comunismo di Platone. Nella commedia Donne al parlamento Aristofane mette in scena un cambio di regime: fuori tutti gli uomini e dentro solo donne a comandare. Mentre gli uomini dormono, le femmine si travestono da maschi, entrano in parlamento e varano subito una ‘riforma’ che le rende padrone assolute del potere. Il ‘capo politico’ Prassagora dichiara subito: “…occorre che tutti mettano i propri beni in comune, che tutti dispongano di una parte di tali beni e che vivano in modo che non ci siano più il ricco e il povero, che uno coltivi un grande appezzamento di terra e l’altro non ne abbia a sufficienza neppure per farsi seppellire”. Aristofane si domanda, se le donne sono tutte in comune, come faranno i bambini a riconoscere la propria mamma? Semplice, i bambini vedranno in tutti gli adulti i propri genitori, azzarda il filosofo. Ma Platone, invece che un politico riformatore, nella satira di Aristofane, appare un cretino distante dalla realtà. La nostra contemporaneità è stata più spiccia, risolvendo il dissidio tra comici e politici, mescolandone i ruoli, portando i satiri al potere e riducendo i politici a guitti ridicoli.
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