L’anarchia antifascista di Giannini e Melato nel classico della Wertmüller

Film d’amore e d’anarchia, Lina Wertmüller, 1973

Il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ormai nove anni fa, dedicò a Lina Wertmüller un’importante retrospettiva al cinema capitolino Trevi. Il titolo di questa kermesse era il seguente: Cinema d’amore e d’anarchia: omaggio a Lina Wertmüller. L’anarchia e il disordine armonico del comportamento di personaggi entro luoghi non proprio canonici sono sempre stati punti fermi all’interno della poetica di quest’importante personalità del cinema italiano, prima donna in assoluto a ricevere una nomination agli Oscar come miglior regista; il suo infatti è da considerarsi «un cinema ribelle, provocatorio, estremo, immerso nei conflitti socio-economici e negli squilibri della società;ma anche un cinema barocco, pieno di ironia, allegro, imprevedibile, iconoclasta e anarchico», così era definito il suo stile dai curatori della già citata retrospettiva del CSC di Roma.  

Nel 1973 la già affermata Wertmüller – reduce dall’acclamato Mimì metallurgico e negli anni Sessanta dal grande successo televisivo de Il giornalino di Gian Burrasca – si interrogava e rifletteva sullo stato delle cose dei movimenti giovanili. Lei, da sempre vicina ideologicamente alla sinistra, pur avendo abbandonato il PCI nel 1956 dopo la rivolta ungherese, si sentiva coinvolta e interessata dall’atmosfera che si respirava durante le contestazioni del post-Sessantotto ed era pronta a convogliare quest’afflato rivoluzionario in un nuovo film. Ma che tipo di film? «La storia – racconta la regista nella bella autobiografia intitolata buffamente Arcangela Felice Assunta job Wertmüller von Elgg español von Brauchich, cioè Lina Wertmüller – mi era venuta in mente leggendo le notizie dei primi terroristi sui giornali. Ragazzi e ragazze che pagavano con la vita le loro idee. Se ne parlava come di criminali ma io volevo capire meglio. Mi misi a studiare la storia dell’anarchia».

Film d’amore e d’anarchia – Ovvero Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza... esce nel 1973 e vede la regista confermare la sua coppia preferita di attori, Giancarlo Giannini e Mariangela Melato che già avevano riscosso un gran successo in Mimì metallurgico ferito nell’onore. Il film è ambientato nel 1932 e racconta la storia di Tunin (Giannini), un contadino del nord Italia che, infatuato dalle idee anarchiche di un suo amico rimasto ucciso dai carabinieri, ripiega in quel di Roma con l’obiettivo di eliminare fisicamente il capo del fascismo, Benito Mussolini. A Roma farà tappa in un bordello, dove ad aspettarlo c’è Salomè (Melato), una prostituta d’estrazione anarchica pronta ad accogliere Tunin come finto cugino.

Il film mantiene la promessa di rileggere i fatti storici con il filtro del grottesco, vero e proprio strumento ideale che la regista ha sempre usato nelle sue storie, mischiandolo con le correnti popolari del melodramma e della sceneggiata. Lina Wertmüller condensa nel personaggio interpretato da Giannini eroi anarchici come Anteo Zamboni, Angelo Sbardellotto e Michele Schirru. Le cronache – ben raccontate nel libro A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini di Erika Diemoz – fanno chiarezza su questo importante snodo storico della storia italiana. La Diemoz racconta che «Schirru giunse in Italia il 6 gennaio 1931. Ventotto giorni dopo, il 3 febbraio, due agenti delle forze dell’ordine irruppero nella camera dell’albergo romano Colonna, da lui occupata, sorprendendolo in compagnia di una donna che aveva conosciuto nella capitale qualche giorno prima, e lo tradussero al commissariato per accertamenti […] Messo con le spalle al muro, l’anarchico sardo tentò di togliersi la vita nei locali della questura, sparandosi alla tempia con la pistola che portava con sé: ma non vi riuscì, procurandosi soltanto una lesione all’orecchio sinistro, e ferendo due agenti lì presenti. Interrogato, Schirru ammise di avere raggiunto Roma con l’esclusivo proposito di attentare alla vita del duce». Nel saggio si parla anche di altri casi sparsi: «A poche settimane di distanza dall’arresto del militante libertario sardo (Schirru, n.d.r.), la polizia procedette al fermo […] di due esuli entrati clandestinamente in Italia con il proposito di uccidere Mussolini: l’anarchico milanese Ersilio Belloni e il repubblicano romano Luigi Delfini». Come si capisce la lista di anarchici intenzionati a compiere l’assassinio del duce è molto vasta e ai nomi già fatti si aggiunge anche quello di Angelo Sbardellotto che «in un bel giorno del 1932, imboccò la strada per Roma. Verso le 3 del pomeriggio del 4 giugno, l’anarchico veneto si aggirava in piazza Venezia: nel cuore geografico della capitale, e nel cuore simbolico del regime. Un poliziotto lo avvicinò per controllare i documenti, e insospettito da un passaporto che lo indicava come straniero (il commerciante ticinese Angelo Galvini), pensò bene di perquisirlo. Gli trovò indosso una pistola e due bombe. Tradotto in questura, dopo un primo momento di esitazione Sbardellotto sputò il rospo: rivelò il suo vero nome, e dichiarò di essere rientrato in Italia con il preciso ed esclusivo proposito di uccidere il duce».

Durante le sue letture la regista rimase colpita da martiri come questi e anche da come questi martiri/eroi passassero le ore precedenti all’atto che dovevano compiere: «c’era la costante del casino dove cercavano un tipo di ospitalità materna e fisica». Tuttavia il Tunin di Giannini si reca al casino perché era la sua base logistica. Lui era solo un ragazzo di campagna a cui avevano ucciso il migliore amico; la sua dozzinalità bonaria traspare dai modi in cui è tratteggiato dalla regista: da lui e dalle prostitute del lupanare si riesce a intercettare un forte senso di tenerezza squilibrata che rientra in quel disordine armonico di cui si faceva riferimento all’inizio di questo articolo.

Per costruire la fisionomia di Tunin su Giancarlo Giannini – vincitore di una Palma d’Oro a Cannes per questo ruolo –, ebbe una visione: «un gatto rosso. Una di quelle facce piene di efelidi […] nacque così quel trucco che prendeva parecchie ore. Ogni mattina si dovevano ricostruire sulla sua faccia una quantità di lentiggini di diversi colori». La perfetta ricostruzione storica della casa di appuntamenti fu opera di Enrico Job, marito della regista e da sempre fine ricercatore e creatore delle scenografie dei lungometraggi della consorte, il quale trovò un edificio settecentesco che possedeva anche un’aurea rustica perfetta per ricollegarla alla realtà di un’Italia ancora arretrata economicamente. Gli ambienti della casa di piacere e la fauna che la frequenta ha dato modo alla regista di essere più che mai anarchica.

Bibliografia:
Lina Wertmüller, Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller Von Elgg Español Von Brauchich cioè Lina Wertmüller, Frassinelli, 2006.
Erika Diemoz, A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, Einaudi, 2011.

Tomas Ticciati
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