Madness of Fincher
La storia del cinema ha spesso analizzato figure di uomini in preda a deliri di follia. Nel corso delle varie epoche questo tema ha cambiato molteplici forme. Un filone del cinema degli anni duemila ha indagato le alterazioni della mente umana, correlate alle pressioni della società contemporanea, agli obblighi sociali, alle mancate aspettative personali che l’individuo di oggi si trova a dover affrontare. Queste problematiche, associate alla frenesia del quotidiano, hanno notevolmente cambiato la visione del mondo e influenzato l’arte in generale.
Nella filmografia di David Fincher è sempre possibile rintracciare personaggi, situazioni ed eventi che non hanno a che fare con l’ordinario. Il regista statunitense ha affrontato più volte il tema della follia o meglio dell’alterazione psichica. Mi concentro su due pellicole in particolare, una del 1999 e una del 2014, rispettivamente Fight Club e Gone Girl; entrambi i film sono tratti da romanzi. In maniera diversa ha dipinto individui disturbati che giocano un ruolo fondamentale nell’andamento narrativo delle opere, da una parte Tyler Durden e dall’altra Emily Elliott-Dunne.
Fight Club racconta le vicende di un protagonista senza nome, insoddisfatto dalla vita moderna, il vero e proprio yuppie americano. Il protagonista inizia a frequentare gruppi d’ascolto e fa la conoscenza di Tyler Durden. Tra i due nascerà una bizzarra e curiosa amicizia al punto che fonderanno un “fight club”, un luogo di aggregazione per uomini alienati pronti a combattere fino alla morte pur di sconfiggere il loro nemico giurato. Solo alla fine si scoprirà che non esiste nessun Tyler Durden, la conoscenza dell’uomo è solo frutto dell’immaginazione del protagonista che materializza il suo alter-ego.
Il protagonista è continuamente combattuto, indeciso se cedere alla sua parte iraconda e sfrontata, consapevole dell’eccessiva instabilità “dell’altro uomo”. La figura di Durden rientra nelle tipologie di altro possibile rispetto a se stessi; talmente forte e radicato nella mente del protagonista che lo umanizza, lo rende vivo, interagisce con lui, lo compromette nei rapporti sociali e nelle scelte quotidiane. L’alter-ego diventa la fonte di sopravvivenza per il protagonista, l’ancora di salvezza per una vita che l’ha già annullato.
Gone Girl racconta la storia di Nick Dunne. Il giorno del suo quinto anniversario il protagonista rientra in casa e non trova la moglie ma solo i segni di una colluttazione sul pavimento. La pressione mediatica sulla scomparsa di Amy porta a una distorsione pubblica della verità, tutti credono che sia Nick il colpevole dell’omicidio della moglie. La verità si scoprirà solo a metà film, Amy è viva e ha programmato la sua morte per vendicarsi del marito fedifrago e attuare il suo piano di vendetta.
La follia di Amy è descritta con le tipiche caratteristiche di un’alterazione mentale, talmente ossessionata dai tradimenti del marito che non decide mai di lasciarlo; anzi, è fermamente convita che dopo la sua presunta scomparsa Nick tornerà fedele e totalmente devoto.
Il cineasta statunitense costruisce due thriller adottando però delle narrazioni differenti. Tyler Durnen è inserito nel racconto come un personaggio reale che aderisce totalmente alla realtà della diegesi e solo nel finale si scopre essere frutto dell’immaginazione del protagonista. Amy, invece, fino a quasi metà film è descritta come una fidanzata amorevole e con un ménage di coppia perfetto. Il colpo di scena a metà film dichiara la sua instabilità nell’architettare un piano folle che prevede un presunto rapimento e omicidio. L’assurdità di questo piano si acuisce quando la protagonista si macchierà di omicidio, non premeditato ma necessario, per portare a termine la vendetta.
In queste pellicole il regista non racconta il “pazzo” ma si concentra sulla scrittura di figure istigate o costrette a sfociare in comportamenti folli a causa delle situazioni legate alla quotidianità. Nel cinema di Fincher la follia diventa spesso la trasfigurazione di una mancata richiesta d’aiuto o è il macguffin hitchcockiano necessario per cominciare la narrazione.
Antonio M. Zenzaro
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