Palestina. Il diritto al ritorno

I palestinesi e il loro diritto al ritorno

Ritorno. Eawda, in arabo.

In quasi tutte le lingue ritorno significa “azione di raggiungere il luogo da cui si era partiti” (Sabatini-Coletti) .

Ma, esiste un popolo per cui la parola ritorno ha oggi un valore diverso, inconfondibile e assoluto: il popolo palestinese.

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La  storia della Palestina e del suo popolo è molto antica e poco conosciuta in occidente. La Palestina è una terra antichissima e teatro di antiche civiltà. Le mura di Gerico sono datate intorno a 9.000 anni fa. L’odierna Gaza era una città-stato fondata nel XII sec. La storia del popolo palestinese è la storia di un popolo antico che vive di agricoltura, che ha un legame profondo e quasi mistico con la terra che concede frutti abbondanti, che ha un legame interiore e intenso con la religione o forse con le religioni perché come molte foto d’epoche raccontano la Palestina era un luogo di convivenza. “La Palestina della convivenza” non è uno slogan ma una mostra, che attraverso molti scatti fotografici testimonia la storia di questo paese, la storia non dei grandi eventi ma la storia delle persone, dei dettagli e così attraverso gli scatti fotografici dell’epoca si scopre una Palestina colta ed emancipata, vicino ad un’altra più rurale con fortificazioni e campi coltivati, olivi, mandorli e agrumeti ma sopratutto scopriamo un paese dove convivono civiltà e culture diverse. La mostra, (che è stata ospitata qualche anno fa a Pisa sia nella sede della provincia che in alcune scuole superiori) racconta il periodo che va dal 1880 al 1948.

Il 1948, infatti, è l’anno a partire dal quale la parola ritorno per il popolo palestinese assumerà un significato preciso, diverso, preminente, ed è anche l’anno in cui,

della Palestina della convivenza si perderà ogni traccia.

Mentre in Europa durante gli anni della seconda guerra mondiale gli ebrei subiscono il durissimo destino della shoah, in Palestina l’Amministrazione britannica cerca di mantenere una posizione di equidistanza tra ebrei e arabi (che vivono a tempo sullo stesso territorio). In realtà questa presunta equidistanza in quel contesto assume conseguenze drammatiche quando, durante la guerra, i britannici, per mantenere buoni rapporti anche con gli arabi appunto, impediscono alle navi cariche di ebrei che fuggono dal nazismo di sbarcare in Palestina per raggiungere le colonie ebraiche presenti sul territorio palestinese. Si arriva poi, dopo la fine del conflitto mondiale, alla decisione del Regno Unito, che, nel maggio 1947, “rinuncia al mandato sulla regione, passando la questione all’Onu; il 29 novembre 1947 la Commissione speciale per la Palestina formula un piano che prevede la creazione di due Stati, lo Stato ebraico di Israele e lo Stato arabo di Palestina, mentre Gerusalemme dovrebbe diventare una città libera; il piano viene approvato dall’Assemblea dell’Onu. (…) Nel marzo del 1948 l’operazione di distruzione dei villaggi palestinesi e di allontanamento forzoso della popolazione araba diventa sistematica. (…) Il 14 maggio 1948, il leader sionista David Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele. (…) Il 15 maggio 1948 truppe della Lega araba attaccano il territorio di Israele. Adesso ha inizio una vera e propria guerra, che dura fino al gennaio 1949. La guerra viene vinta dall’esercito israeliano, che riesce anche ad ampliare i confini del territorio originariamente assegnato a Israele, impadronendosi di gran parte dell’area che l’Onu aveva assegnato agli arabi palestinesi. Anche in quest’area viene attuata la politica di allontanamento della popolazione palestinese, cacciata fuori dai nuovi confini dello Stato di Israele” (A.M.Banti -Il senso del tempo) Queste le parole dei manuali di storia, più sentiti e toccanti i racconti dei ricordi “Al pozzo, i soldati cominciarono a usare i manganelli e a guidare la folla terrorizzata giù dalla collina. Un carro, carico di beni di diverse famiglie, traballava e sollevava la polvere. Un’anziana donna cadde a terra e qualcuno l’aiutò a rialzarsi. “Avanti, avanti!” gridò il dio dell’altoparlante. Il terrore si levava dai cuori delle persone e volteggiava nell’aria come uno stormo di uccelli. (…) Per tre giorni e due notti camminarono su e giù per le colline impietose, sotto il bagliore accecante del sole e lo sguardo invisibile ma infallibile dei cecchini. Un bambino diabetico e sua nonna caddero per terra e morirono. Una donna abortì, i corpi disidratati di due bambini si afflosciarono tra le braccia delle madri. Riuscirono ad arrivare a Jenin, riposando dovunque trovavano spazio nell’ondata di profughi che confluivano dagli altri paesi. La gente del posto li aiutò come potè, offrendo loro cibo, coperte e acqua e ospitandone nelle proprie case il maggior numero possibile in quei tempi di emergenza. Poco dopo Giordania, Iraq e Siria mandarono qualche tenda e a Jenin sorse un campo profughi, dalle cui colline gli abitanti di ‘Ain Hod potevano guardare le case a cui non sarebbero mai tornati.” (Susan Abulhawa -Ogni mattina a Jenin).

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Al Nakba (la catasfrofe) così i palestinesi ricordano la guerra del 1948/49 e il loro esodo forzato.

 “Ad Haifa l’attacco contro la città, condotto da forze ebraiche molto superiori agli arabi che la difendevano, fu preceduto da trasmissioni radio ripetute più volte al giorno in cui si diceva: «E’ giunto il giorno del giudizio, oggi è tale giorno. In nome di Dio allontanate dai quartieri arabi le donne e i bambini». Alla mezzanotte del 22 aprile 1948 cominciò il bombardamento con i mortai della città araba mentre dalle sovrastanti pendici del Monte Carmelo venivano fatti rotolare bidoni di olio infuocato e gli altoparlanti continuavano a trasmettere avvertimenti e minacce. Migliaia di palestinesi presero così la fuga, ammassandosi nel porto, nel quartiere tedesco (controllato dagli inglesi) e stipandosi su autobus e barche si allontanavano dalla città. (…) nel pomeriggio del 12 luglio, iniziò l’espulsione sistematica della popolazione. Racconta Yitzhak Rabin nelle sue memorie (pubblicate negli Usa nel 1979) che Ben Gurion seguiva le operazioni dal Quartier generale e alla domanda su cosa si dovesse fare con la popolazione araba fece un gesto energico e conclusivo con la mano e disse: «Espellerli!»” (Giancarlo Lannutti -Storia della Palestina)

“Alla fine di tutta questa vicenda sono 750.000 i palestinesi (uomini e donne, vecchi e bambini) che sono stati costretti a fuggire o sono stati spinti con la forza fuori dai confini di Israele, prevalentemente nel Libano meridionale, nella «Striscia di Gaza» o in Cisgiordania, territorio palestinese rimasto arabo e annesso alla Giordania.” (A.M.Banti -Il senso del Tempo)

Da allora innumerevoli altre guerre si sono succedute. Ognuna con un diverso nome. La guerra di Suez, la guerra dei sei giorni, la guerra del Kippur, la guerra del Libano… Al-Nakba (la catastrofe), Al- Naksa (il disastro) i nomi arabi per le diverse guerre. I nomi già dicono chiaramente chi furono i vincitori e chi i vinti. Il numero dei profughi è aumentato a ogni guerra. Altrettanti innumerevoli sono stati i trattati di pace che si sono succeduti. Accordi di Camp David, conferenza di Madrid, accordi di Oslo, e poi ancora OsloII, due memorandum, ancora Camp David, Road Map e altri ancora. Molti gli argomenti su cui discutere e su cui scontrarsi durante le trattative: terra da dare o da restituire, risarcimenti, concessioni, vittime civili, vittime militari, nuove regole, nuovi confini ma da sempre, tutti i trattati si sono scontrati su un punto: il diritto al ritorno.

La risoluzione 194 dell’ Assemblea generale dell’Onu, votata l’11 dicembre 1948 proclama il diritto dei rifugiati, di coloro che sono fuggiti, o che sono stati espulsi per qualunque motivo durante un conflitto a ritornare nelle loro case “alla data più prossima possibile”. Ad oggi si stima che siano quasi 5 milioni i palestinesi dispersi tra i campi profughi del Medio oriente, e nel resto del mondo.

Alla fine degli anni 2000, in una lettera aperta indirizzata all’allora primo ministro israeliano Ehud Barak, un professore di scienze politiche dell’Università di Tel Aviv, Shaul Mishal, scrive: “Quando la polvere sarà ricaduta sulla prossima guerra israelo-palestinese o israelo-araba, saremo certamente i vincitori. E Lei, signor primo ministro, Lei spunterà dal fumo del campo di battaglia per pronunciare i più brillanti elogi davanti alle tombe appena scavate. Lei potrà anche persuadere molte persone che si trattava della più giustificata di tutte le guerre condotte dagli ebrei. Sarà una guerra nella quale vinceremo tutte le battaglie, ma queste vittorie non ci condurranno da nessuna parte se non al punto di partenza. Chi meglio di Lei sa che, quando l’ultima battaglia sarà terminata e saremo di nuovo costretti a sederci al tavolo dei negoziati con i palestinesi e i rappresentanti dei paesi arabi, con gli americani, gli europei e forse anche con una partecipazione internazionale, noi dovremo discutere delle stesse questioni territoriali dolorose, di Gerusalemme e del diritto al ritorno dei rifugiati?”

Il problema del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, a quasi 70 anni di distanza da quel lontano 1948, rimane il più profondo e irrisolto di tutta la questione palestinese.

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La Palestina è stata cancellata dalle mappe ufficiali, i nomi delle antiche città sono stati cambiati in nomi di lingua ebraica, ma i profughi palestinesi nel mondo continuano a tramandarsi le chiavi delle case, i canti del loro paese, i cibi della loro terra e i ricordi.

Tutto il mondo della cultura ha manifestato nel corso degli anni la propria solidarietà al popolo palestinese, sono stati scritti libri, realizzati spettacoli teatrali, una lunga filmografia, appelli di rockstar, disegni, murales, graphic novel ma, allo stesso tempo, il silenzio e la sordità delle istituzioni è stata quasi direttamente proporzionale.

Per capire che cosa voglia dire non poter far ritorno dal luogo da cui siamo partiti, ricordiamo le parole di uno degli intellettuali più autorevoli in materia di orientalismo e questioni ad esso legate, Edward Said:

“L’esilio è singolarmente stimolante da pensare, ma terribile da sperimentare. È l’insanabile frattura scavata tra un essere umano e un luogo natio, tra il sé e la sua vera casa: la sua intima tristezza non può mai essere sormontata, è perdita di qualcosa che ci si è lasciati per sempre alle spalle”.
Mary Ferri

 

 

Dario Soriani
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