Shakespeare, Amleto e la Palestina

CASCINA – Le parole di Shakespeare, a distanza di secoli e in tutt’altro contesto, riescono a mantenere la loro forza e continuano a essere di un’attualità spesso disarmante. Questa è una delle prime riflessioni che suscita la visione di “Amleto a Gerusalemme“. In questo spettacolo Gabriele Vacis e Marco Paolini tornano a lavorare insieme e, con loro, otto giovani attori palestinesi e italiani: Alaa Abu Gharbieh, Ivan Azazian, Mohammad Basha, Giuseppe Fabris, Nidal Jouba, Anwar Odeh, Bahaa Sous, Matteo Volpengo. Il 2 maggio la Città del Teatro di Cascina ne ha ospitato una delle date.

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La mis en scène è il risultato finale di un progetto che prende avvio nel 2008 e che prevede la creazione di una scuola di teatro a Gerusalemme. Il progetto prende forma grazie alla cooperazione internazionale, al Palestinian National Theatre e al Ministero degli Esteri italiano.

In mezzo alle mille difficoltà del contesto la scuola parte, va avanti e il progetto arriva a conclusione: lo spettacolo va in scena.

L’aspetto scenografico più caratterizzante sono le 2.500 bottiglie di pet vuote che vengono allineate, rovesciate, prese a calci, tirate, spostate, allineate di nuovo, e, il rumore che producono in ognuna di queste occasioni.

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Gli attori sono sempre in scena e la scenografia di Roberto Tarasco prevede l’uso di una grande tavola che all’occorrenza viene issata in alto, a volte inclinata. Video di scene reali girate in Palestina passano sul fondale e i racconti di vita dei giovani attori si impastano sulla scena trasportando lo spettatore lontano dal teatro.

Per chi segue da vicino le vicende palestinesi, la drammaturgia di Vacis e Paolini non lascia niente al caso e tutte le peculiarità della storia e dell’attualità trovano spazio nel narrato: dalla chiave di casa che i nonni ancora conservano dal 1948, ai dispersi che vengono cercati per anni, alla nazionalità indefinita sul passaporto, ai checkpoint, ai tunnel sotterranei, alle guerre, al muro, alla droga, all’amore profondo e inspiegabile per la loro terra e, per finire, alla follia di non poter vedere il mare. «Palestinian Kids Want to See the Sea»: questo il grido dei ragazzi di Hebron e il sottotitolo dello spettacolo. Non manca neppure l’abituale assente, perché, nonostante la cooperazione internazionale, non c’è progetto sulla Palestina che non abbia un assente, qualcuno che non ha avuto il permesso per uscire dal paese. In questo caso è Abdel, «uno che ti bastava vederlo per ridere» racconta Paolini.

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La narrazione è un coacervo di lingue: italiano, arabo, inglese e la musica malinconica e cantata dagli stessi attori è un elemento narrante.

Amleto e Shakespeare come si inseriscono in questo contesto? Perfettamente. Che sia la magia del teatro o la perizia indiscussa di Vacis e Paolini (probabilmente entrambe), ma ogni qualvolta le parole di Shakespeare arrivano allo spettatore è come se si sentissero per la prima volta. Quelle parole, quei monologhi così conosciuti, così tante volte sentiti sembrano scritti per quello spettacolo.

Così, la voglia di andarsene da quel luogo, i dubbi, la rabbia, l’accettare realtà o continuare a lottare contro il destino, tutto è perfettamente aderente, le parole sono giuste, le più giuste.

L’immagine che porti via con te è quella delle bottiglie di pet allineate sulla tavola e che magicamente si trasformano nello skyline di Gerusalemme. Uno spettacolo unico. Poetico e forte emozionante e coinvolgente.

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