Stefano Vizioli racconta la sua Lucia di Lammermoor

Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti è assente dal cartellone lirico del Teatro Verdi di Pisa da ben diciotto anni: l’ultima rappresentazione, infatti, risale al dicembre 2000. Venerdì 18 e domenica 20 gennaio tornerà, finalmente, sulle tavole dello storico teatro pisano avvalendosi della regia di Stefano Vizioli, che ha accettato di parlare con noi di questa sua nuova fatica registica, svelandoci qualche interessante retroscena.

Ha già curato per due volte la regia di Lucia di Lammermoor, la prima volta nel 2002 a Saint Louis e la seconda nel 2006 a Sankt Gallen; con questa regia del 2019 arriviamo a tre. Che legame c’è fra lei e Lucia?
«Ho molto esitato ad accettare di dirigere Lucia per la prima volta nel 2002, non sapevo da che parte prenderla, pur avendola suonata, vista, ascoltata migliaia di volte. Su una cosa ero abbastanza certo: non volevo basarmi troppo sull’atmosfera scozzese e sui rimandi folkloristici, in una concezione troppo legata allo studio dei clan, dei tartan e dei kilt, elementi che m’ inibivano a livello di creatività. Evidentemente lo sblocco c’è stato quando ho coraggiosamente confessato a me stesso di svincolarmi da tutto ciò per individuare una visione più personale. Piuttosto che la descrizione dei fatti, ho preferito cercare le metafore e subito mi è apparsa evidente come Lucia parli di un tema purtroppo ancora tanto contemporaneo quale la violenza sulla donna: la coercizione, la manipolazione e strumentalizzazione della donna è un male che attraversa i secoli. Individuando le metafore insite nel testo di Lucia  ho avuto più libertà creativa».

Lucia è una delle opere più apprezzate ed eseguite al mondo, un regista può ancora dire qualcosa di nuovo su questo titolo?
«I capolavori si definiscono tali quando non si finisce mai di studiarli (per fortuna!). Bisogna avere l’umiltà di trovarsi davanti a uno spartito senza avere un atteggiamento troppo confidenziale: il problema è che, come nel caso di Lucia, una frequentazione troppo “familiare” del testo può attivare dei motori automatici pericolosi, perché si rischia di dare tutto per scontato. Invece l’aspetto del lavoro più interessante è ricominciare da capo, riscoprire il testo, risalire alle fonti storiche o letterarie, individuare un ambiente pittorico e poetico consono alla propria sensibilità creativa. Bisogna cogliere il perché la natura di capolavori come Lucia colpisca emotivamente lo spettatore di oggi nello stesso modo in cui ha colpito il pubblico del 1835. Una volta che s’individua questo aspetto immanente, lo spartito poi deve diventare il complice più stretto e solidale del regista».

Ha già detto che l’allestimento non sarà propriamente “tradizionale”. Perché questa scelta?
«Fondamentalmente come regista mi focalizzo molto sulle ragioni dei personaggi, sulle loro valenze psicologiche, drammaturgiche, e noto che una storia come Lucia può essere trasportata in qualsiasi periodo storico».

Lucia ha quindi, ancora oggi, una sua attualità?
«Enorme. In un periodo come il nostro, in cui si parla della liberazione della donna ma tutti i giorni assistiamo a femminicidi, a coercizioni,  ad ogni tipo di  violenza fisica e psicologica. Secondo me Lucia è ancora un buon punto di osservazione per capire quanto ancora la figura femminile sia vittima di un potere maschile assordante».

Piuttosto che attualizzare dei classici, che sono espressione di una particolare temperie culturale, non ritiene che sarebbe più efficace allestire (se non addirittura commissionare) nuove opere per parlare di tematiche attuali?
«Penso che il valore dei grandi capolavori – dall’Incoronazione di Poppea fino al repertorio contemporaneo – stia proprio nel fatto che i loro nuclei drammatici abbiano una natura trasversale, elementi come potere, sesso, violenza, coercizione, abbandono, tradimento, non abbiano una loro identità specifica storica o ambientale, ma attraversano letteralmente i secoli e toccano le sensibilità dello spettatore di ogni epoca. Fare una regia trasportando l’opera da un periodo storico a un altro ormai non è più un problema di interpretazione o ricerca dello scandalo a tutti i costi, basta avere una coerenza stilistica: se per esempio si parla dell’Incoronazione di Poppea, che è un’opera che tratta di potere conseguito attraverso il sesso, che la si ambienti nel periodo romano, in quello barocco o contemporaneo, non cambia nulla, è sempre la stessa storia si può disinvoltamente arrivare al potere attraverso un saggio utilizzo delle proprie… “abilità fisiche”».

Tornando a lei, ha già diretto altri titoli di Donizetti: due volte l’Elisir d’amore e una volta Don PasqualeParisina Betly; tuttavia Lucia di Lammermoor è quella su cui è tornato più spesso. Perché?
«In verità casualmente: Lucia è arrivata tardissimo rispetto all’Elisir d’amore, che ho fatto molto giovane (nel ’94 mi pare), anche la Betly l’ho fatta quand’ero ancora abbastanza ragazzo e il Don Pasquale  per la Scala di Mialno che ancora adesso, dopo 25 anni dal debutto, ancora mi chiedono, ma Lucia l’ho sempre un po’ rinviata per via di questa mia autocensura nei confronti di un titolo cosi apparentemente obbligante. Alla fine, però, è forse quella che preferisco fra le mie regie, è quella nella quale sono leggermente più indulgente nei miei propri confronti. Magari è quella che piacerà di meno! Vedo il Don Pasquale che ha avuto un successo gigantesco, l’Elisir d’amore  che ha girato l’Europa, ma quella che emozionalmente mi prende di più è proprio la Lucia, che è l’opera cui sono arrivato più tardi e con molte più difficoltà».

Cosa troveremo, dunque, in questa terza regia?
«Innanzitutto fedeltà assoluta alle ragioni drammatiche dello spartito, che sono tante, e come sempre, io cerco di farmi subito amico Donizetti: più Donizetti che Cammarano, anche perché – paradossalmente – le ragioni di tanta drammaturgia e di tante dinamiche psicologiche le individuo più nella scrittura orchestrale, nella scrittura vocale, che non nel testo stesso del libretto (che comunque è un colpo di genio di Cammarano rispetto a quella brodaglia pesante di Walter Scott). I grandi compositori sono sempre dei grandi registi e sanno bene come servirti. Poi, che io l’abbia spostata nel secondo Ottocento perché sentivo di più questo ambiente nordico un po’ alla Ibsen, un po’ alla Casa di bambola, dove c’è questa sorta di oppressione della donna nei confronti di una sua propria libertà emotiva,: Lucia si riscatta nella pazzia, quindi nella sua propria liberazione dalle catene imposte dagli uomini, solo se si è pazzi si è liberi, per lo meno in un certo mondo. Ho proposto nell’allestimento questa atmosfera “nordica” priva di colore, in questa produzione abbiamo solo neri, grigi, bianchi, argenti, non usciamo da una certa severità plumbea e opprimente. Mi piaceva anche sottolineare certi rapporti importanti tra i personaggi, come quello molto ambiguo tra Enrico e Lucia, mi piacerebbe insomma proporre aspetti meno prevedibili, sicuramente già detti da altri, ne sono certo, ma forse riuscire a trovare una lettura che susciti qualche motivo di riflessione in più in un testo cosi tanto amato come Lucia di Lammermoor ».

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