Shine e la bellezza diventa musica

Shine: il dolce sogno ombroso dei PineAppleMan

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Un giorno come un altro ricevo un messaggio da Marco Zordan, musicista vicentino che mi chiede di ascoltare e recensire Shine l’ultimo lavoro del suo progetto musicale, i PineAppleMan, uscito a gennaio 2016. Curiosa come sempre di avvicinarmi a nuove proposte scarico il materiale, premo play e mi lascio trasportare da un flusso di atmosfere oniriche che tocca direttamente le mie corde sonore. La prima parola che apre il disco è “winter”, inverno, un inverno che attraversa tutto il lavoro della band di Marco, mentre il brano Eyes scorre tra vocalizzi alla Smashing Pumpkins e note di pianoforte evanescenti che mi fanno venire in mente un bellissimo lavoro dei The National del 2011, High Violet. Procedo all’ascolto di Mirror e Shine, il secondo e il terzo brano. Anche qui si sentono echi d’oltremanica, i Placebo di Meds e Bitter end, gli Editors per le chitarre e per la voce tremolante e malinconica, fino a Black Rabbit che inevitabilmente richiama alla memoria Back Room degli Editors del 2005. I brani sono brevi e ricercati, la voce di Marco e le ritmiche musicali denotano ascolti senza dubbio di brit pop e indie rock dei primi anni del 2000, fino ad accenni new wave e psichedelici che si liberano in Rubies, pezzo più rock e triste che porta dentro elementi alla Pink Floyd di Momentary Lapse of Reason o addirittura dei Radiohead, gruppo senza dubbio di riferimento per il progetto. Shine è un lavoro che inevitabilmente denota esterofilia e ricerca nostalgica, forse strano per la musica nazionale indipendente italiana, ma che unisce cantautorato, traslato per coerenza in lingua inglese, a un esercizio di riflessione sulla vita fatta di luci e soprattutto di ombre. Disco lento e mai troppo diretto ci invita a metterci degli occhiali da sole scuri per osservare il mondo e scarpe nuove per fuggire in luoghi lontani e trasformarci in presenze evanescenti e distaccate da determinate sofferenze. “Theach me the infinity…we are pearls”. D’altra parte vita va avanti Life Goes On, e i PineAppleMan ci raccontano questa storia con uno stile lontano dalla musica nazionale, strizzando l’occhio ai Turin Brakes e ai Travis più malinconici.

Sono riuscita a intervistare Marco per avere maggiori informazioni su questo nuovo lavoro. Vi lascio leggere l’intervista e vi invito ad ascoltare Shine.

Mi ha incuriosito il vostro nome. Da dove deriva? C’è un legame con il vostro stile musicale? Ancor prima ancora di ascoltare Shine  il vostro nome mi ha fatto venire subito in mente una certa psichedelia anni 90, non so forse per la frutta abbinata alla musica…

Il nome nasce per caso, un giorno volevo dare una svolta al cantautorato in italiano che creavo sotto mio nome, ho pensato prima di tutto ad un nome divertente, che suonasse bene e fosse direttamente collegato ad un pensiero, Pineappleman racchiudeva tutto questo: l’immediatezza, la suggestione e un nome facile da ricordare.

Come nasce il progetto PineAppleMan e con quali obiettivi?

Dopo anni di cantautorato solista e dopo pochi riscontri, decido di sfornare una nuova creatura, avevo buttato giù qualche testo in inglese e avevo il desiderio di formare una vera e propria band, quindi dare una connotazione assai diversa, rispetto ai progetti precedenti, un’idea che mi permettesse di dare maggiore comunicabilità nei confronti di ciò che portavo dentro da un po’ ed era in quel momento pronta ad uscire; al tempo Pineappleman nasceva perché c’erano delle cose in giro che non andavano bene e nel suo piccolo si provava a cambiarle.

Raccontatemi come è nato il vostro ultimo lavoro… Come avete creato i pezzi, come lavorate in studio, quali sono state le suggestioni che hanno contribuito a realizzarlo, i vostri riferimenti artistici etc.

L’ultimo disco è stato molto burrascoso. A casa con chitarra acustica, carte e penna scrivo le canzoni, poi quelle che mi sembrano migliori le propongo al gruppo e le sviluppiamo. Il disco è stato registrato in 5 mesi con sessioni abbastanza lunghe, lo studio si trovava a circa 50 km da casa e per una dozzina di volte ho fatto la spola avanti e indietro di sera, durante la settimana e di volta in volta, con gli strumentisti di turno, aggiungevamo tassello dopo tassello, ora dopo ora, attimo dopo attimo. Principalmente con il passaggio dalla musica più soft all’indie rock ho ascoltato parecchio Radiohead, Editors, Interpol, Smashing Pumpkins, i primi e gli ultimi band di riferimento fin dall’adolescenza. Diciamo che realizzare un disco per cosi dire “movimentato” è stato quasi un sogno che cercherò di curare e sviluppare nel tempo.

Purtroppo è anche un disco che non avrà sviluppi, ci sarà al momento una promozione solo virtuale perché la band non esiste più.

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Qual è il fulcro del vostro concept album?

Shine è un disco di chiaro scuri, di perdita e abbandono, è prima di tutto un viaggio su ciò che saremo e ciò che ci siamo lasciati alle spalle, è un disco rock ed è anche allo stesso tempo un concept, tra i testi c’è nascosto un periodo della mia vita, il bisogno di lottare in un mercato sempre più saturo di proposte e dove le possibilità, anche solo di fare ascoltare il proprio lavoro è quasi nulla. Shine è un disco sulla lucentezza e la bellezza, sulle cose da fare ogni giorno e sulle mete da raggiungere, mai abbandonati, mai da soli.

Perché la scelta di scrivere testi in inglese? Vi sentite più Pop o Rock?

Scrivere in inglese questo tipo di musica era in primis istintivo, quasi dovuto e certamente voluto. L’inglese per questi suoni ha una musicalità ineccepibile. Non ho però chiuso le porte all’italiano.

Scegliete un pezzo del vostro ultimo album e raccontatelo qui ai nostri lettori…

Rubies. Rubies racconta di una bellezza irraggiungibile, quella bellezza che porti dentro da bambino, il bambino sull’altalena e le lacrime che evaporano, il giorno e la sera, lo scorrere della luce e poi la perdita del proprio cammino che si può ritrovare solo grazie alle pietre lasciate per terra.

Grazie ancora!

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Virginia Villo Monteverdi

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