Joe Wright. La danza dell’immaginazione: una monografia a cura di Elisa Torsiello

A giugno è uscito Joe Wright. La danza dell’immaginazione da Jane Austen a Winston Churchill, il primo libro della giovane critica cinematografica Elisa Torsiello. Il testo, edito dalla casa editrice Bietti (con i preziosi contributi si Seamus McGarvey e Dario Marianelli) ha come protagonista un’indagine storico-visiva ed emozionale della filmografia del regista inglese, famoso per gli adattamenti letterari di Orgoglio e Pregiudizio e Anna Karenina. Una prima vera e propria monografia sull’opera del regista.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’autrice per scendere nel particolare della produzione di Wright e nel suo raffinato e seducente rapporto con le arti visive. La monografia sarà presentata il 18 ottobre presso il Cinema Arsenale di Pisa e sarà presente anche Seamus McGarvey.

So che Wright insieme ad Hitchcock e Fincher è uno dei tuoi registri preferiti. Secondo te c’è qualcosa che lega questi tre nomi del cinema?
«Di primo acchito direi il profondo amore che tutti e tre questi registi nutrono per l’arte cinematografica. Propenderei pertanto ad affermare che per quanto distanti per estetica e modus operandi, i tre sono accomunati da un forte interesse per l’atto dello sguardo. Dalla Finestra sul cortile di Hitchcock, all’incapacità di guardare cosa c’è dentro una scatola in Seven, o allo stesso atto dello spiare sia anche tramite uno schermo del pc in The Social Network di David Fincher, fino ai dettagli di occhi che scrutano attraverso fessure nell’opera di Joe Wright, un’indole voyeuristica lega l’opera di questi tre autori. Non a caso si una certa componente metacinematografica nelle loro produzioni, e questo mi ha sempre interessato tantissimo».

Wright dialoga molto con le altre arti, in particolare arti visive e danza. Ci vuoi far degli esempi di alcuni suoi film in cui questo rapporto è estremamente evidente? 
«Anna Karenina, assolutamente. Questo film è il compendio perfetto di tutte le arti che hanno segnato il percorso di studio di Wright: c’è il teatro (qui impiegato come proiezione metaforica della società russa di fine Ottocento), le arti visive con gli innumerevoli rimandi alle opere impressioniste di Monet e Renoir, e, soprattutto, la danza, non solo quella compiuta materialmente dagli attori in scena, ma della cinepresa stessa di Joe Wright.
Ogni film di questo cineasta vanta comunque continui rimandi metartistici al mondo del teatro o dell’arte figurativa. Solitamente i registi lasciano sempre qualcosa di loro nei propri film, e per uno come Joe, cresciuto nel laboratorio di burattini dei propri genitori, nutrendosi di arte in tutte le sue forme, era normale che lasciasse questo continuo interesse multi-artistico sparso nei suoi film. Perfino un’opera come Hanna, thriller adrenalinico, per sottolineare la suspense e l’ansia del momento si affida alla danza della propria macchina da presa».

Hai citato Hanna come uno dei migliori film del regista. A cosa si deve questa tua affermazione?
«Hanna è l’unico film nella produzione cinematografica di Wright a non essere basato su opere letterarie o vite di personaggi illustri. Una bella sfida per il regista inglese, il quale giocando interamente sulla propria fantasia, poteva strabordare nel campo della pura immaginazione tralasciando la componente più realistica del suo stile autoriale. Così non è stato e il risultato è una favola thriller macchiata di sangue. Un gioco di ossimori che purtroppo non è stato apprezzato come dovrebbe. Ne approfitto per consigliarlo a tutti, non solo per la resa registica qui ai massimi livelli e sottolineata da una colonna sonora eletrizzante firmata dai Chemical Brothers, ma anche per i riferimenti cinematografici (Robert Bresson e Park Chan-Wook in primis) che faranno esaltare i cinefili più attenti».

Il Wright degli spot per TV, dei video musicali di inizio carriera, di The End e di Black Mirror. Secondo te, in questa veste, il regista ha saputo incidere il suo stile come nei lungometraggi o c’è un altro Wright che parla in questi lavori? 
«Ho sempre visto queste produzioni, in particolare gli spot televisivi, come delle appendici alla sua produzione cinematografica. Molto spesso in esse si reiterano perfettamente (si pensi solo alla pubblicità di Chanel del 2007) inquadrature, elementi scenografici, o dettagli proposti nel film uscito in quello stesso anno. Per quanto riguarda le serie TV e i video musicali degli inizi diciamo che essi racchiudevano in nuce tutti quei stilemi registici che l’autore avrebbe poi sviluppato negli anni a seguire con i suoi film. Cito la serie firmata BBC Carlo II: il potere e la passione, dove Wright già anticipava l’dea del mondo ripreso come palcoscenico teatrale su cui far muovere i propri personaggi in veste di burattini, e il già sperimentato impiego dei dettagli di occhi e mani come transfert emozionali».

Quali sono i tratti inconfondibili della produzione dei lungometraggi di Wright? (Sia nei temi che nella tecnica di ripresa, nella scelta dei soggetti, ecc).
«Sicuramente l’idea di portare sullo schermo storie di donne forti, capaci con le proprie scelte di rivoluzionare (anche negativamente, si pensi a Briony in Espiazione, Lacie Pound in Black Mirror, o la stessa Anna Karenina) la propria esistenza e quella di chi le sta accanto. A dominare comunque lo stile autoriale di Wright è un perfetto equilibrio tra immaginazione e resa verosimile dell’ambiente contenente una data storia. Nel momento in cui uno dei due poli sommerge l’altro, ecco che si hanno le produzioni più deboli e meno riuscite del regista (Pan e Il Solista).
Non mi stancherò mai di dire quanto ami invece l’uso costante degli occhi e delle mani come proiezioni di sentimenti. Il dettaglio di queste parti del corpo riescono a comunicare emozioni e sentimenti che le parole non riescono a esprimere. In maniera analoga vengono impiegati superfici riflettenti o doppi schermi (schermi televisivi o cinematografici) capaci di proiettare la tempesta emotiva che si sta abbattendo all’interno del personaggio, e questa è una scelta che mi ha sempre affascinato».

Consiglieresti Wright a chi si approccia alla settima arte come fruitore? E perché?
«Assolutamente sì. Il suo linguaggio semplice, universale, ricco di elementi metaforici che giocano sia con la nostra fantasia che con i nostri sentimenti, è usufruibile da tutti».

Condividi l'articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.