“Piuma” di Roan Johnson. Quando l’autoironia è terapeutica

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PISA – Per non cadere nel cliché del «leggero, ma non superficiale», Roan Johnson alza le mani, si ferma un istante, e dice di non voler lasciare messaggi particolari o avere la pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno. Ma solo raccontare, divertire ed esserci. Che non è poco.
Piuma, il suo terzo film da regista, ha diviso l’esigente critica del Festival del Cinema di Venezia. «Ma si sapeva che avrebbe creato un po’ di scandalo, alle commedie succede. Qualcuno lo ha avvertito un po’ come un oltraggio al cinema ‘serio’».

Forse perché la risata, oggi, sembra un po’ un tabù?

«In un certo senso sì. Lo sceneggiatore Francesco Bruni mi ha detto: ‘Li hai fatti ridere, non ti perdoneranno mai’».

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Il regista anglo-pisano Roan Johnson

Ci sono spunti personali dietro alla creazione del film?

«Ottavia (compagna del regista e cosceneggiatrice del film, ndr) e io eravamo nell’età in cui ci si pone la domanda: facciamo figli o no? Non c’è alcun messaggio particolare dietro al film, volevamo stare dentro a qualcosa di epocale e contemporaneo come la paura di essere genitori, che nasce da tutte le difficoltà che oggi ci sono per diventarlo. E così, per esorcizzarla, ci siamo immedesimati in due ragazzi di diciotto anni che sono alle prese con la maturità e con una gravidanza inattesa. Con loro le emozioni si amplificano. Ah, abbiamo un figlio e uno in arrivo».

Il tema del film sembra essere l’assunzione di responsabilità, oscillando tra un pessimismo senza precedenti e l’incoscienza dei giovani protagonisti. Dove sta la verità?

«Nessuno ha l’esclusiva sulla verità. E per fortuna. È un concetto che ho portato avanti anche negli altri film. I genitori dei protagonisti Ferro e Cate non sono poi così diversi da loro, così come lo stesso Ferro: la sua indubbia incoscienza non gli impedisce di assumersi una responsabilità di questa importanza».

Ti consideri un giovane regista?

«Per fortuna in Italia si è giovani anche dopo aver compiuto i quaranta. Io sono sempre arrivato tardi ai vari appuntamenti professionali della mia carriera. Basti pensare che il mio primo film, I primi della lista, l’ho girato a 37 anni. Ma non è una cosa negativa, perché l’arte della regia è complessa e serve tempo. Artisticamente sì, mi considero giovane».

Perché una commedia?

«La commedia italiana è stato il primo genere che ha sdoganato la sconfitta di certe parti d’Italia. Risi, Monicelli, Scola, Scarpelli, Virzì e tanti altri ne sono un esempio. Ed è un genere che da qualche anno sta recuperando dignità, qualità e viene spesso scelto dalle giurie dei più importanti festival».

Quali differenze ci sono con i tuoi precedenti lavori?

«Ci sono molti punti in comune, è naturale. Parlerei di una ‘trilogia del romanzo di formazione’. Ho trattato temi per me importanti, ma senza mai rinunciare a ironia e leggerezza. Dalla paura di un colpo di stato ne I primi della lista, raccontando il passaggio dall’adolescenza alla maturità di Fino a qui tutto bene, e arrivando infine all’assunzione di responsabilità in Piuma».

Con Paolo Virzì hai iniziato il tuo percorso, come sceneggiatore e come regista. Ci sono collegamenti con il recente La pazza gioia, dove si avverte lo stesso bisogno di leggerezza?

«Sicuramente Virzì ha rappresentato e rappresenta un modello per me. È stato lui a incentivarmi a coltivare l’arte della regia. Ha avuto il grandissimo merito di riportare al centro del discorso la commedia italiana, e La pazza gioia non è certo da meno. Non solo: gli attori che ha scelto, poi, in genere, sono diventati fra i più bravi in circolazione. E ha saputo osare. Penso, in questo senso, a Il capitale umano».

Anche Virzì ricevette un’accoglienza simile alla tua, a Venezia, con Ovosodo. Era il 1997. Può essere di buon auspicio?

«Mi accontenterei di aver un terzo del riconoscimento che ha avuto Paolo per quel film. Il suo, ripeto, è stato e continua a essere un percorso straordinario».

Come hai scelto gli attori?

«È stato un incubo: 1.100 provini. Per il ruolo della ragazza (Blu Yoshimi, ndr) non ho avuto particolari problemi. Scegliere a chi affidare il personaggio di Ferro, invece, è stato molto difficile. Luigi Fedele, nonostante i soli 17 anni, ha una grandissima maturità e cultura cinematografica. C’è un aneddoto divertente. A metà riprese mi prende da parte e fa: ‘Pur essendo romano, sono nato a Pisa. Ma non volevo dirtelo prima’. Si vede che non voleva arruffianarsi il sottoscritto (ride, ndr)».

Chi ha avuto l’intuizione del titolo?

«Quando abbiamo scritto la parte in cui Ferro parla del nome che vogliono dare alla bimba, ‘Piuma’ appunto, il produttore ha subito detto che sarebbe stato il titolo».

Possiamo accostare la tua piuma a quella di Forrest Gump?

«Certo. Nel titolo c’è anche un riferimento allo stile, al tema e al tono del film. Il nome è come una parola magica che vola sopra il mondo. Proprio come la piuma di Forrest Gump. Quel pizzico di magia non deve mai mancare».

Hai parlato più volte di autoironia. E allora chiudiamo con un breve corso di sopravvivenza per il nostri tempi: l’autoironia, in tre passi, per Roan Johnson.

«Pensare sempre prima a dove sto sbagliando io, e non gli altri. Non avere paura del giudizio delle persone. Imparare a ridere dei propri sbagli».

Fino a qui, sembra, tutto bene.

Francesco Bondielli

Francesco Bondielli
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