Luca Led Miniati e Keith Haring

Storie sconosciute di Pisa: forme diverse di street-art si incontrano

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Luca Led Miniati

La storia di Luca “Led” Miniati è un’affascinante storia di ballo, arte e passione. E più precisamente di breakdance – o breaking, come la chiamano i puristi. Quel ballo spericolato, caratterizzato da evoluzioni e intrecci improvvisi.

Il suo lungo percorso l’ha portato a esibirsi di fronte a Keith Haring, nel momento in cui l’artista statunitense dipingeva quel capolavoro che oggi conosciamo col nome di TuttoMondo. All’epoca Led aveva diciotto anni. Haring scese dal ponteggio e andò a stringergli la mano: quel ricordo arde ancora intenso nella sua memoria, e oggi Luca lo condivide con noi.

Ma la sua storia inizia ben prima, con i film, e ascoltarla significa immergersi nello psichedelico scenario anni ’80, nella decade che vide diffondersi le prime pellicole destinate a ispirare generazioni di ballerini, rilanciando quel movimento spontaneo – sorto a metà degli anni ’70 nel Bronx newyorkese – poi denominato cultura Hip-Hop.

Nato nel 1971 a Firenze, Luca è uno fra i più bboys più rappresentativi a livello nazionale e probabilmente il più navigato della scena toscana. Ma è innanzitutto un artista poliedrico: fra le sue passioni ci sono il canto, la pittura e la scultura. «A otto anni ero già un appassionato di film – racconta – il primo a segnarmi fu I Guerrieri della Notte, di Walter Hill. Ho ricevuto un’educazione rigida, ma ero un ragazzino agitato. Gli scenari apocalittici del film mi portarono a contatto con una parte profonda della mia personalità, qualcosa in cui mi identificavo e che mi seduceva, forse per la sua carica trasgressiva. Poi in Tv vidi una persona muoversi in modo strano, con onde e contorcimenti. Non era breaking, ma catalizzava già la mia attenzione».

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Luca Miniati con il padrino dell’Hip-Hop Africa Bambaata

Lo shock finale arriva con Flash Dance: «Quando vidi il trailer, lo sconvolgimento fu completo. Decisi di risparmiare per comprare un videoregistratore. Una spesa grossa, a quei tempi. Mi ci volle un anno di sacrifici. Poi vidi Wild Style, una pellicola che per me è il massimo, ma che purtroppo oggi, fra le nuove generazioni di ballerini, nessuno capisce più, e viene spesso snobbata. Lo adoro perché è genuino. Il protagonista è brutto, cosa impensabile, oggi, soprattutto in un film che parla di arte e danza. Il ballo e il writing sono una cornice intorno a un cuore di scenari autentici, e la cosa fondamentale è la determinazione del protagonista nell’inseguire i propri sogni. Una lezione che non ho mai dimenticato: andare avanti, malgrado le delusioni».

Il tipo di ballo in cui Led si specializza è l’Electric Boogie, un tecnica basata sulla ritmica contrazione dei muscoli e sulle onde che rendono il ballerino simile a un pupazzo robotico, fluido e sussultante. «Fino al 1985 ho ballato soprattutto in piedi. Fu il mio primo maestro a darmi il soprannome: quando ballavo in discoteca, i miei occhi riflettevano la luce come dei led. A quel tempo era un nome fantascientifico».

Luca amplia le sue conoscenze. Impara a conoscere i luoghi delle prime jam, raduni di ballerini provenienti da tutta Italia, a volte anche dall’estero. Nomi che hanno fatto la storia della breakdance, spesso sconosciuti al grande pubblico: come Angelino, Ice Mc, StormZero T. Ma inserirsi, farsi accettare e divenire parte di quel movimento suburbano, i cui codici vanno interpretati e decodificati, per Luca non fu semplice: «Al Central Park di Firenze, a metà degli anni ’80, si tenevano i primi raduni. Erano le prime esibizioni a cielo aperto. Io mi sentivo sempre un po’ out, ho dovuto faticare molto per guadagnare credibilità». Quella arriverà col tempo e l’esperienza. Nel 1989 supera le selezioni nazionali e conosce Storm e Swift Rock, importanti esponenti della scena tedesca; nel 1994 si aggiudica il titolo mondiale nella categoria Hip-Hop e nel 1996 in quella di Electric Boogie.

Luca Miniati in compagnia di Crazy Legs, storico membro della Rock Steady Crew

Luca Miniati in compagnia di Crazy Legs, storico membro della Rock Steady Crew

«Comunque – continua Luca – i tempi erano caratterizzati da feste e party. Non c’erano molte gare, la breakdance era una cosa per pochissimi. Il nostro riferimento divenne lo Zulu Party, che prende nome dalla Zulu Nation, movimento fondato dal padrino dell’Hip-Hop, Africa Bambaata. Senza pensare ai soldi, ai timbri o alle tessere, ci si riuniva per divertirsi e confrontarsi, e per il gusto di sentirsi trasgressivi. Non rinnego però di aver vinto gare di federazione, che mi sono state utilissime per espandere le mie conoscenze».

È il 1989. Keith Haring sta disegnando i contorni delle sue celebri figure sulla parete della chiesa di Sant’Antonio Abate, a Pisa. Luca, che in quel momento si trova a Torre del Lago, viene avvisato da un amico. Insieme partono alla volta di Pisa, facendo girare la voce fra i ballerini del gruppo. «La piazza era tranquilla – ricorda Led – e si sentiva una musica, provenire dai ponteggi. Noi scendemmo dove ora si trova il bar Keith Haring: allora c’era la fermata della Lazzi, una compagnia privata di trasporti. Haring ascoltava i Public Enemy, un gruppo rap statunitense sui cui brani ci allenavamo spesso. Questo creò subito una connessione fra noi. Io credo che Haring conoscesse già il mondo del breaking, e che ne avesse rispetto. Lo dico perché, in Hip-Hop Files – lo storico libro della fotografa Martha Cooper – c’è uno scatto in cui lo si vede osservare i ballerini della Rock Steady Crew in azione».

Luca Miniati con Keith Harring. Da: "Cronaca di un murales"". Foto di Antonio Bardelli e Cippi Pitshen

Luca Miniati con Keith Haring. Da: “Cronaca di un murales”. Edizioni ETS. Foto di Antonio Bardelli e Cippi Pitschen

«Quando si accorse che eravamo lì per ballare, scese dal ponteggio e venne a presentarsi col suo compagno. Mi sembrò una persona umile, pacifica e amichevole. Scattammo una foto assieme, poi divenuta celebre. Ci regalò una spilla e una maglietta. Volle farci ballare sul tetto della Lazzi, con lo sfondo del murales, ma era pericoloso. Così tornammo sull’asfalto incandescente. La sera ci spostammo all’Associazione Deposito, un hangar dove Haring suonò musica house. Erano tempi matti. C’era c’era gente vestita da ciclista sui tavoli, e spesso svestita».

Dopo molti anni, Luca cerca ancora di trasmettere quel messaggio fondamentale ai suoi allievi, e a tutti quelli che si accostano al mondo dell’Hip-Hop dà questo consiglio: «Cercate di capirne l’essenza. Per farlo è necessario comprendere che dietro a questa parola si nascondono una storia e una cultura, alla cui base sta il breaking. Lo so che i tempi sono cambiati, ma il principio fondante rimane lo stesso: l’unione, non la convenienza. Ci può essere rispetto anche quando le idee differiscono. Questo vale sia per l’Hip-Hop che per la vita in generale: anteporre la passione al conflitto».

Un messaggio che in molti hanno colto fra le pieghe del murale di Keith Haring.

FilippoFilippo Bernardeschi

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