The Wall: tra videoclip e cinema totale

Pink Floyd – The Wall (The Wall, Alan Parker, 1982)

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Cinema e Rock condividono il ruolo di signori delle illusioni Roberto Curti

L’opera rock portata su grande schermo è stato uno dei tanti percorsi utilizzati dai cineasti per tentare di ibridare il cinema di qualche decennio fa. In un panorama musicale sterminato come quello degli anni ’60, ’70 e degli anni ’80 non era difficile trovare concept-albums “facilmente” traducibili in immagini, tuttavia alla conta finale non è che ci troviamo in mano un numero così eccessivo di film basati su dischi (se si escludono i numerosi e commercialmente redditizi musicarelli prodotti in Italia). Il rock al cinema poteva essere visto in differenti modi e i molti registi che hanno dovuto manipolare questi testi hanno lavorato in varie direzioni: il bio-pic, la galleria di “urlatori alla sbarra”, il film delinquenziale giovanilistico, la teatralità del musical, il film di genere permeato da immaginari stilistici vicini all’Heavy Metal o al Punk e il concept-movie.

The Wall fa parte di quest’ultima categoria, ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio della storia. Correva l’autunno dell’anno 1979 ed i Pink Floyd si accingevano a concludere le registrazioni di The Wall insieme ad un vasto entourage tecnico e produttivo. Se del disco si occuperà l’approfondimento di Virginia, noi, in questa sede, parleremo dell’opera di Alan Parker, uscita in tutto il mondo nel 1982, con un’anteprima a Cannes ’82 che fece dire ad uno stupito Steven Spielberg: «Ma che cazzo di roba è?».

Autobiografia, memorie di guerra paterne, rapporto tra mondo delle rock star e il mondo dei comuni mortali, problemi di dipendenza e dei metodi d’insegnamento nelle scuole: The Wall racchiude una così vasta gamma di tematiche che sembrano fatte apposta per sposarsi perfettamente l’idea di cinema totale che Alan Parker aveva in mente. Ma il regista di Saranno famosi e Fuga di mezzanotte non fu la prima scelta ed il progetto non nacque con la sua impronta.

gerald_scarfeTra le tante personalità che orbitavano attorno al pianeta-Floyd c’era Gerald Scarfe, l’ideatore delle trovate scenico-visive dei live shows e dei videoclip della band che aveva rapporti con loro dal 1973. Scarfe ebbe delle difficoltà ad affacciarsi sul mondo del cinema: un contatto iniziale con il famoso regista Michael Powell per realizzare The Magic Island (tratto da La tempesta di Shakespeare) naufragò per colpa di finanziatori poco coraggiosi e varie altre idee non vennero mai sviluppate a dovere. Ecco allora che nella testa di Roger Waters si materializza l’idea di trasformare The Wall in un film. Ma che tipo di film? Chi prenderà le redini del progetto? Dopo lunghe sessioni di scrittura e di interventi sullo storyboard, Waters incontra il regista Alan Parker e lo invita ad incontrare anche Scarfe. Parker ricorda i primi problemi nella realizzazione del film:

Ci misi parecchio a prendere la decisione di dirigere il film, perchè non sapevo come renderlo mio

mentre Waters alla fine si convinse sempre più della scelta di un regista come Alan Parker, perchè solo lui, in quanto britannico come il musicista, avrebbe al meglio «compreso i temi legati al secondo dopoguerra e a quel che era accaduto». I problemi comunque restavano: la band intendeva filmare un concerto, anche perchè il primo casting non andò a buon fine e l’idea di fondo rimaneva quella di mantenere centrale nel film una performance live. Sorsero problemi di carattere tecnico: la forte intensità delle luci – che servivano ad avere una fotografia perfetta per la pellicola – e l’invasivo utilizzo della gru mandarono il pubblico su tutte le furie, così da scartare questa opzione e ripensare il film come un mix tra animazione (a cura di Gerald Scarfe) e live-action.

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Per le scene girate con veri attori la parte del leone è quella affidata al cantante irlandese Bob Geldof che, inizialmente diffidente, disse al suo manager «non mi interessa, odio i Pink Floyd»
per poi successivamente diventare un memorabile Pink-multiforme. Bob nella pellicola si trasformò da rockstar ingabbiata in spazi claustrofobici, a gerarca fascista, da essere orrifico putrefatto, a bambino che ricorda la mala-educazione del suo professore. Waters e Scarfe hanno recentemente dichiarato che la pellicola, nonostante abbia creato grossi malumori e abbia distrutto in un certo qual modo la band, contenga delle scene memorabili che sono entrate nell’immaginario collettivo come proprio quella della scuola e del tritacarne umano.

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Waters disse infatti che con Another Brick In the Wall non si voleva compiere un attacco alla scuola intesa come istituzione bensì «a un metodo di insegnamento ben preciso. Allora e in seguito i ragazzi ne hanno fatto un inno, e questo vuol dire che quel metodo di insegnamento esiste ancor oggi». Da quest’ultimo argomento è possibile partire per sottolineare come il film, nonostante sia un film musicale accompagnato dalla quasi totalità delle canzoni dell’album di riferimento, possa essere considerato come un esperimento di cinema totale, tra animazioni e suggestioni claustrofobiche non lontane dai coevi 1984 di Michael Radford o Brazil di Terry Gillam, e dimostra come in certi casi i dissidi interni, gli screzi e gli attriti possano dar vita a qualcosa di unico e memorabile – anche se non perfetto – come sono uniche e memorabili le animazioni belliche di Scarfe su Goodbye Blue Sky o le maschere deformi indossate dagli scolari mentre scorre la celeberrima Another Brick In the Wall (part 2).

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Tomas Ticciati
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