Purple Rain di Prince: la pioggia viola che ha fatto storia

Ricordare il famoso album Purple Rain è un doveroso omaggio a uno dei mostri sacri della musica pop che ci ha lasciato poco tempo fa: Roger Nelson, in arte, Prince.

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Purple Rain, uscito il 25 giugno del 1984 per la Warner Bros Records, è il primo lavoro in cui il narcisistico polistrumentista Prince si avvale di una band in studio, dando vita ai Prince and The Revolution, che vedevano al suo interno musicisti veterani come Lisa Coleman, Matt Fink e Bobby Z., Wendy Melvoin, e Brown Mark. L’album venne concepito come colonna sonora dell’omonimo film che spinse l’artista in cima alle classifiche facendogli guadagnare un premio Oscar, battendo i Beatles, Bruce Springsteen e stendendo la british invasion: Purple Rain, nella sua versione a 33 giri, restò nelle chart americane per 21 settimane consecutive arrivando quasi a competere con Thriller di Michael Jackson e totalizzando circa 20 milioni di copie vendute in tutto il mondo.
Prima del grande successo il “folletto di Minneapolis”, chiamato così per la sua statura minuta di 158 cm, si era già fatto conoscere con album come Controversy e 1999, lavori eccezionali e brillanti in cui l’artista metteva in musica argomenti che spaziavano dalla sessualità spinta alla politica attraverso funky, rockabilly, disco e soul. Ma con Purple Rain Prince fece il botto e divenne una pop star in grado di comunicare con un linguaggio universale oltre le identità razziali e musicali.

Dopo essere stato l’apocalittico interprete della cosiddetta “bomb culture” Prince ritorna con un album concepito come colonna sonora del film Purple Rain. Continua la sorprendente escalation del più inquietante fenomeno della musica americana di questi anni: un androgino nero dai tratti demoniaci e arroganti che per molti versi può essere considerato l’esatta controparte di Michael Jackson. Mentre Jackson, al pari di Stevie Wonder, può essere considerato il più alto livello della black identity capace di piacere anche al pubblico bianco, Prince è qualcosa di completamente nuovo. Il suo personaggio, così come la sua musica, sono figli bastardi delle due culture, una perfetta fusione tra il lessico più aggressivo dei neri (funky, rhytm’ n’ blues, electric boogie) e il nuovo rock bianco. Tra le due componenti non c’è alcuna contrapposizione. Si tratta forse del primo prototipo di una cultura di frontiera del tutto nuova, che confonde le sue identità razziali, ma che riunisce il narcisismo dandy della new wave elettronica e la violenza delle minoranze etniche. Prince è di quelli che sembrano nati già col marchio della grande star.

Da un articolo de “la Repubblica” del 19 settembre 1984

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Prince non solo è stato una delle più grandi star del firmamento del pop, ma è stato anche un compositore raffinato e un polistrumentista eccellente che poteva essere paragonato non alle pop stars dell’epoca come Madonna, Duran Duran o Cyndi Lauper, ma ai grandi musicisti della storia come Jimi Hendrix, James Brown, Stevie Wonder e Frank Zappa. Da questi artisti Prince riuscì a prendere il meglio (sia musicalmente che esteticamente) associandovi una carica edonistica e sensuale propria del funky, e assorbendo quei mostri del rock e trasformandoli in una versione patinata, romantica e disinibita che tanto piaceva al pubblico del pop di metà anni Ottanta. Con Purple Rain Prince creò la sua divinità carnale e il suo personaggio iconico, nello stesso modo in cui Bowie si costruì la sua figura, ma indubbiamente con più sfacciataggine e aggressività black. L’immaginario che ruotava intorno al Prince del 1984 era fatto di musica bianca come l’heavy metal, la new wave e il glam rock e la ricercatezza sfrontata della black music: un connubio che subito si fece irresistibile, originale e creativo, fatto di sperimentazioni innovative ma allo stesso tempo facile e orecchiabile all’ascolto.
In questo disco Prince riuscì a dare nuovo protagonismo alla chitarra distorta e a creare riff e ritornelli immortali come quelli della title track o di Let’s go crazy, scatenato funk-rock tinto di psichedelia che assomiglia un pezzo black traslato per Flash Dance e Grease, o magari uscito da un disco dei Reflex ma con una grinta decisamente più evidente. Sicuramente catchy ed esondante di romanticismo da playboy è la title track dell’album, Purple Rain, dove Prince si traveste come una specie di Hendrix new romantic, prendendo anche un po’ dai Duran Duran, dai Motely Crue e aggiungendo quel pizzico di Stewie Wonder che crea un risultato geniale e vendibile alla perfezione. Questo pezzo dalla melodia veloce e sussurrata, è un’estasi di quasi nove minuti che riunisce gospel, soul, blues psichedelico, pezzi come Faithfully dei Journey, e il funk visionario di George Clinton, sotto il colore viola che con Prince diventa protagonista estetico, ma che già dominava indirettamente gli immaginari video e fashion delle pop stars dell’epoca, da Boy George ai Visage. Il viola per l’artista simboleggiava il colore della rinascita, del cielo al tramonto portatore di un nuovo giorno dopo un evento apocalittico: «When there’s blood in the sky, red and blue goes to purple… Purple rain pertains to the end of the world and being with the one you love and letting your faith/god guide you through the purple rain». Non c’è da stupirsi di questa dichiarazione, d’altra parte Prince in quel periodo era particolarmente ossessionato da tematiche apocalittiche…
3c3f74faf8de483d0b4ac94ecfa2d836Pezzi sensuali, romantici ed espliciti, ormai marchio di Prince dall’inno al sesso orale di Little Red Corvette, si ritrovano ovviamente anche in Purple Rain. Take me with U, cantata da Prince e da Apollonia Kotero (protagonista dell’omonimo film) e The Beautiful Ones, ballata synth pop alla Flock of Seagulls dedicata alle bellissime donne della scuderia dell’artista, sono pezzi molto sexy dove Prince si esprime con grande sensualità e sofferenza viscerale, quasi isterica. Più maliziosa e decisamente esplicita è invece Darling Nikki, un pezzo dalle chitarre graffiate e glam rock che racconta di una donna sesso dipendente che l’artista vede masturbarsi nella hall di un hotel, pezzo condotto con grida alla Jimmy Page e con un ritmo cadenzato che non può non far pensare al sesso. La canzone ovviamente fu molto criticata e condusse ad un incidente diplomatico che portò Tripper Gore a fondare il Parents Music Resource Center (PMRC) per tutelare i bambini dalle oscenità che alcune canzoni potevano comunicare. Successo indiscusso del disco fu indubbiamente When Doves Cry (singolo che ha lanciato l’album in cima alle classifiche con oltre 2 milioni di copie vendute). Il pezzo si apre con una distorta sequenza pentatonica in stile Iron Maiden per continuare in un andamento sincopato dove non c’è traccia di basso. Il pezzo, dal testo più profondo e maturo dove l’artista confessa di non essere né uomo né donna, ma solo un comprensivo amante e descrive una delusione d’amore dove la solitudine è protagonista: «Why do we scream at each other, this is what it sounds like when doves cry». Il pezzo si chiude con un solo tastieristico alla Bach che lascia sicuramente molte questioni insospese. E come diceva Prince in Let’s Go Crazy con una voce da predicatore. Esiste un mondo nuovo, dove possiamo vedere sempre il sole, anche di notte, e dove possiamo liberarci delle costrizioni per essere finalmente liberi e noi stessi.

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Virginia Villo Monteverdi

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