Il suono del classico: I Diaframma

Siberia dei Diaframma, 5 dicembre 1984: Il fuoco vivo sotto la neve

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A trent’anni dall’uscita del disco, che nel dicembre del 2014 ha visto nuova vita e diffusione tramite una proficua ristampa, dedichiamo un articolo per ripercorrere insieme questo piccolo capolavoro di una band New Wave fiorentina, parte della nostra terra.

Dolore, tristezza, gelo, presenze femminili evanescenti, luci nella nebbia, bagliori, morte interiore, paesaggi urbani, il tempo portatore di angoscia, amori che restano solo nel ricordo, sogni frammentati, interni fatiscenti, sono i protagonisti di questo pezzo della storia di musica italiana.

Le voci si alterano e si dissolvono in suoni lontani e la paura di vivere si materializza in note ripetute e cristalline, dentro una terra fatta di gelo e astenia, la terra innevata della Siberia, metafora che indica l’impossibilità di muoversi tra la voglia di vivere e il terrore di farlo. Ascoltare Siberia è come mettersi dietro una finestra dal vetro crepato, coperta di condensa, attraverso cui si cerca di osservare un paesaggio cittadino che, inconsapevole del nostro stato d’animo fratturato, ci scorre davanti come una pellicola in avanzamento veloce. È il moto di un diaframma fotografico (da qui il nome del gruppo) che riesce a dar vita a chiaroscuri musicali.

La nebbia, protagonista indiscussa dell’umore New Wave e della sua trasposizione per immagini, diventa qui una patina del sentimento di chi cerca di farsi strada nella vita, una vita vissuta a scosse e trasalimenti, non sentita come propria e talvolta invocata come un diritto perduto, è un grido di chi soffre per aver perso qualcosa, e di chi ha paura di andare avanti guardando giù, dentro un precipizio nero. Siberia è lo spleen postmoderno, un moto di novità estetiche d’oltremanica (portate anche dal movimento Post-Punk emiliano) che rispondeva al trash italiano degli anni 80, a tutta quella cultura kitsch e alle estetiche pittoresche/glamour che spesso Sanremo proponeva, tra Ramazzotti, Al Bano, Baglioni e i Ricchi e Poveri.

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I Diaframma di Siberia, Miro Sassolini (voce), Federico Fiumani (chitarra e mente del disco), Leandro Cicchi (basso) e Gianni Cicchi (batteria), riuscirono a creare un album denso di tematiche personali, talvolta lontano dalle elaborazioni del mondo che circondava le band dell’epoca. Come diceva spesso Federico Fiumani, i Diaframma erano all’epoca giovani tristi che si annoiavano sempre. L’unico momento felice era quando impugnavano i loro strumenti per suonare: e questo fu uno dei motori che diede vita a Siberia, esempio di gelo interiore come spesso Fiumani ha riportato in alcune delle sue interviste.

Siberia è il mio manifesto musicale. La tristezza ha sempre fatto parte di me, della mia vita, delle mie canzoni. Sono sempre stato un tipo cupo, ombroso. La musica ti permette di sublimare queste sensazioni, anche brutte, e trasformarle in un valore. la cupezza, la tristezza. Eravamo pieni di sensi di colpa. Però la musica era potente, ed era tutto quello che avevamo. Per me è così anche oggi. Era un moto dell’animo molto forte, dava un senso alla nostra vita. Mi ha aiutato moltissimo, perché poi alla fine è come un messaggio in bottiglia che affidi al mare. […] Ho perso mio padre a cinque anni, crescendo ho avuto un sacco di problemi. Mi sentivo diverso dagli altri, e in qualche modo lo ero: avevo fatto una vita diversa, piena di preoccupazioni, di sensi di colpa a causa di questo evento così tragico che poi, due anni dopo, mi ha portato in psicanalisi. La morte di mio padre mi ha distrutto e mi ha reso insicuro, ansioso. Siberia era un po’ la mia Siberia interiore, unita alle incertezze sul futuro.

Federico Fiumani (da un’intervista di Monica Mazzoli per Roar Magazine, 29 Luglio 2013)

Firenze all’epoca dei Diaframma

L’album si situa in un periodo floridissimo per la scena musicale italiana, un momento, quello della prima metà degli anni 80, che aveva vissuto attraverso le giovani generazioni italiane l’esplosione Post-Punk del 1977. Il Punk si era già diffuso nel nord Italia, in particolare in Emilia e in Lombardia, e aveva dato vita nei primi anni 80 a band Post-Punk come i Gaznevada, i Rats e in particolar modo agli storici CCCP-Fedeli alla Linea di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni (nati a Berlino); ai Carnival of Fools di Mauro Ermanno Giovanardi, ai Decibel di Enrico Ruggeri e agli Underground Life. Sebbene il nord fosse estremamente prolifico, grazie anche alla presenza di immigrati anglo/americani che dalle basi militari diffondevano le ultime novità in materia musicale, Firenze risultò un altro fulcro florido per la nuova onda italiana.

Negli anni Settanta Firenze era una città molto particolare, una specie di isola felice, a differenza di Bologna, Milano, Torino e altre città industriali nelle quali si sentiva molto il peso della violenza politica. La New Wave italiana arrivò con il solito ritardo che spesso caratterizza le nostre produzioni musicali, in un periodo segnato dall’atmosfera soffocante degli anni di piombo, dalle lotte spietate per il controllo del petrolio, e dalla sempre più evidente opposizione tra destra e sinistra, un periodo dove si cercava di fare musica per evadere e per rivoluzionare un mondo fatto di obblighi e convenzioni.banana-moon-copertina-vert Firenze all’epoca vedeva la nascita di locali underground come il Banana Moon in borgo Albizi dove si respirava un’aria vagamente londinese, come la Rockoteca Brighton di Settignano e il Tabasco Club (primo locale gay d’Italia), o come il Casablanca, il Tenax (nato nel 1981) che vedevano spesso la presenza di artisti e musicisti europei dai Killing Joke ai Lounge Lizards, dai New Order a Franco Battiato, dagli Echo And The Bunnymen ai Bauhaus. Firenze era una città di arte e musica in cui confluivano molte tendenze internazionali: dalle sfilate di moda (ad un’ edizione del Pitti Trend si esibirono gli inglesi Psichedelic Furs al Teatro Tenda), alla prolificazione di riviste indipendenti, dalla nascita di etichette indipendenti (Materiali Sonori, I.R.A., Urgent Label), fino alle rassegne d’arte congiunte agli esperimenti elettronici del teatro d’avanguardia (Teatro di Luce). Firenze era insomma una città che riusciva a mostrare tolleranza e diffusione di ogni nuova forma di espressione, un posto in cui la comunità dei giovani si stava avvicinando a quei fenomeni contro-culturali provenienti dal nord Europa, un luogo dove l’anticonformismo musicale ed estetico riusciva a prendere sempre più piede. Ed è proprio in questa Firenze europea del rinascimento rock che nacquero i Diaframma: il principale punto di ritrovo del gruppo fu una specie di “covo” contro-culturale, la già citata Rockoteca Brighton a Settignano che fu il fulcro per la diffusione prima della musica Punk e poi della New Wave. Fiumani e colleghi, ancora liceali tra il 78 e il 79, andavano lì per condividere le ultime scoperte musicali: Nicola Vannini, il proprietario e prima voce dei Diaframma, passava spesso artisti inglesi, tra cui Bowie, i Joy Division, i Clash, i Sex Pistols, Siouxise and the Banshees, e il locale divenne un nuovo punto di incontro per tutti i giovani che volevano fare musica… Anche Piero Pelù, futuro leader dei Litfiba frequentava quel posto, appena uscito col suo gruppo dalle cantine di via de’ Bardi. A Firenze nacquero così alcuni dei più grandi gruppi della New Wave italiana: Neon, Bisca, Violet Eves, Moda, Litfiba, e i Diaframma cavalcarono questa onda brillante esordendo con un 45 giri Pioggia/Illusione ottica. Ne seguiranno altri due: Circuito chiuso (1982) e Altrove (1983) e nel 1984, anno immerso nel fanatismo musicale anglosassone e nei giorni dell’I.R.A. di Alberto Pirelli, nacque Siberia.

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Le tracce di Siberia richiamano musicalmente tutto ciò che aveva a che fare con i Joy Division, New Order, Television, Strangles e Bauhaus. Non c’è un’ossessione macabra in questo album, la morte è un sentimento percepito come la montaliana perdita della memoria, come una paura di perderla. La “morte è breve”, è allucinata e tutta mentale, è un tramonto, come Miro canta in Neogrigio e in Impronte. Le melodie sono funeree, ma non languide e lugubri, c’è più astio che commiato, più insoddisfazione che lutto, più disinteresse che ossessione per stati d’angoscia: alla fine del tunnel infatti i Diaframma vedono sempre la luce, come il fuoco che resta vivo sotto la neve e come il ricordo che sopravvive nel sogno e in silenzio.

Siberia, la title track, è senza dubbio il pezzo più forte e distruttivo: nato dalla mente di Fiumani come molti altri testi, riflette alcune letture dell’artista come Cechov o i poeti del simbolismo francese, trasportati in una dimensione urbana fatta di luci artificiali, colori freddi e paesaggi mentali. I testi di Siberia, come molta musica New Wave e affine, giocano appunto sulla sinestesia: attraverso sensazioni visive e tattili i suoni rievocano atmosfere che li completano.

Amsterdam è uno dei miei pezzi preferiti, penso di averlo ascoltato in loop non so quante volte, penso che sia una poesia di una personalità frammentata che richiama le note elegiache di Decades dei Joy Division. È il testamento giovane di una mente che, come in Delorenzo, è come una soffitta vuota che aspetta di essere riempita da ricordi un tempo perduti: “dove il giorno ferito impazziva di luce”. Le chitarre brillano e il basso ha il ruolo di protagonista come in tutta la generazione Post-Punk. Smiths, Siouxsie and the Banshees riecheggiano in brani come Specchi d’Acqua, una canzone sul rinnovamento del proprio essere, mentre il fantasma delle foreste di Rescue degli Echo & The Bunnymen sembra manifestarsi nei giri di chitarra di Desiderio Dal Nulla, ma privo di quella lucentezza folk che contraddistingue il gruppo anglosassone. Fiumani infatti canta alla Ian Curtis, voce bassa e sommessa, schiarita da qualche grido disperato ma non troppo enfatico, anzi, oserei dire estremamente reale.

Se anche voi sentite la necessità di esplorare il vostro lato “oscuro”, di essere abbagliati dai riflettori artificiali delle parole dei Diaframma e dalla lucentezza delle loro chitarre… Ascoltate Siberia. Dopo 30 anni è ancora estremamente attuale e lo sta diventando sempre più.

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Virginia Villo Monteverdi

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