Il Quartetto di Cremona per i Concerti della Normale

PISA – L’appuntamento di martedì 28 marzo dei Concerti della Normale ha visto la partecipazione sul boccascena del Teatro Verdi di una delle migliori formazioni cameristiche dell’attuale panorama musicale italiano, il celebre Quartetto di Cremona, formato da Cristiano Gualco (violino), Paolo Andreoli (violino), Simone Gramaglia (viola) e Giovanni Scaglione (violoncello).

Il Quartetto di Cremona. Da sinistra: Cristiano Gualco, Paolo Andreoli, Simone Gramaglia e Giovanni Scaglione (photocredit: Elisa Caldana)

Questo Quartetto si presenta come una delle più vivaci e affascinanti realtà musicali odierne, non solo per i diciassette anni d’attività ma anche per l’elevata caratura della sua attività artistica che l’ha portato nel corso degli anni a divenire – tra l’altro – artist in residence della storica Società del quartetto di Milano (2011), presso cui ha eseguito l’integrale dei quartetti di Beethoven e, nel 2016, dei quartetti di Mozart, senza contare il fatto che dal 2011 i componenti del Quartetto di Cremona sono titolari della classe di quartetto all’Accademia Walter Stauffer di Cremona e sono stati insigniti di numerosi riconoscimenti, come il Supersonic Award della rivista tedesca Pizzicato. È quindi naturale che attorno a un concerto di una formazione tanto blasonata sia andata creandosi un’attenzione sempre maggiore, anche considerando l’entità del programma proposto: “solamente” quattro composizioni, ma di spessore artistico tutt’altro che irrilevante.

Il compositore Dmitrij Dmitrievič Šostakovič

Lo stesso brano d’inizio – il Quartetto per archi n. 7 in fa diesis minore op. 108 di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič – può essere letto come manifesto programmatico di ciò che la formazione intende offrire al pubblico: non solo un elevatissimo grado di perfezione artistica ma anche una lettura critica e profonda della partitura, senza tuttavia andare ad appesantire l’esecuzione; in breve i solisti del Quartetto di Cremona riescono nelle loro esecuzioni a fornire interessanti spunti di riflessione ma – contemporeaneamente – lasciando che sia solo la musica a parlare, senza mai sovrastarla in alcun modo.

A proposito del settimo Quartetto di Šostakovič, molto interessante la decisione di eseguire la composizione lasciando un brevissimo intervallo di tempo tra un movimento e l’altro, in modo da suggerire quasi l’esistenza di un unico movimento, molto dilatato ed esteso. Infatti questa è una delle peculiarità del Quartetto op. 108, concepito in modo atipico rispetto alla forma cui è ascritto. Di soli tre movimenti, non contiene nette differenziazioni, soprattutto a livello tematico, tra i singoli movimenti; piuttosto Šostakovič si serve di alcune cellule tematiche che vengono poi variamente sviluppate e dilatate in una complessa esposizione spalmata su tutti e tre i movimenti, pertanto la lettura data dal Quartetto di Cremona è quantomai vicina all’autentico spirito che il compositore a infuso nel brano.
A livello strettamente personale, devo dire che ho molto apprezzato alcune peculiari sfumature nell’esecuzione di questo requiem laico, ad esempio le sonorità molto flautate del Lento, così come l’esaltazione di quella cupezza caratteristica della musica dell’europa orientale e di cui quest’opera è così intrisa, in particolar modo l’Allegro conclusivo che contiene diversi passaggi dal gusto quasi bartokiano.

Ludwig van Beethoven nel 1823

Decisamente più rassicuranti i toni del Quartetto per archi n. 8 in mi minore Razumovskij op. 59 n. 2 di Ludwig van Beethoven, in cui il compositore si diverte a giocherellare attorno a temi dall’accento popolareggiante, celati però in un contesto strumentale importante che a tratti – per vastità di elaborazione musicale o per il caratteristico impiego dei ritornelli – sembra ammiccare al Beethoven sinfonico. Ottimi il gusto e la verve con cui il Quartetto ha eseguito questa intensa ma piacevole composizione, con un particolare riguardo alla frizzante citazione dello Slava, la celebre melodia popolare russa (impiegata, tra gli altri, da Modest Mussorgskij nel Boris Godunov e da Sergej Rachmaninov nel movimento conclusivo dei 6 morceaux op 11); quando il Quartetto di Cremona esegue Beethoven si respira immediatamente aria di casa: si percepisce chiaramente la profonda conoscenza dell’opera del maestro di Bonn che tra le loro mani diviene materia vivente.

Toni similmente rassicuranti – ad eccezione alcuni passaggi più umbratili – caratterizzano anche il Quartetto per archi n. 1 in do maggiore op. 49  di Šostakovič: una gioia sbrigliata, lirica, alberga in questo esperimento cameristico del compositore più sarcastico di tutte le Russie, in quel periodo fortemente ridimensionato dalle durissime accuse mosse al suo lavoro dalla critica musicale russa (presumibilmente vergate in forma anonima dallo stesso Stalin), come si può evincere dal mansueto Moderato iniziale. «Pagina dal candore haydniano» lo definisce lo storico Gregorio Moppi, e a ragione: le atmosfere serene, diafane, incorniciano episodi ora umoristici, ora più cupi, l’accento popolare della viola che apre il secondo movimento, la spensierata vivacità dell’Allegro molto, per poi cedere il passo al travolgente Allegro finale, salutato con una tanto repentina quanto spontanea ovazione da parte del pubblico.

Il manoscritto della Grande Fuga op. 133

A chiudere il programma il brano di gran lunga più atteso di tutta la serata, la monumentale Grande Fuga per quartetto d’archi in si bemolle maggiore op. 133. Questa pagina, sicuramente la più tormentata e avveniristica composizione di Beethoven, non manca mai di sorprendere il pubblico: il conflitto di visionaria violenza, derivante dallo scontro della rigorosa forma contrappuntistica con pulsioni armoniche e dinamiche di tipo sonatistico, genera suggestioni che richiamano prepotentemente allo stile del primo Novecento e che ogni volta lasciano lo spettatore sbalordito di associare quelle stesse suggestioni a un uomo nato nel Settecento e a un brano del 1825. Per questo motivo la Grande Fuga è tanto affascinante, perché rappresenta la summa del pensiero polifonico di Beethoven, raggiunta attraversando tempeste di irregolarità ritmiche e asperità armoniche.  
Tuttavia è fortemente ingiusto pensare a questo brano soltanto come a un collage di dissonanze perché, come ha giustamente sottolineato il M° Cristiano Gualco, al suo interno esiste anche così tanta bellezza, come una tutt’altro che velata ironia, elementi che l’esecuzione del Quartetto di Cremona ha posto in luce in modo inequivocabile, accompagnando lo spettatore attraverso questo dramma umano, dalla terrificante Overtura agli accenti tragici del soggetto della Fuga, al sereno ripiegamento interiore del Meno mosso e moderato, all’umoristico Allegro molto e con brio in cui inizialmente appare quasi una parodia del tema della Fuga, ma che poi lascia il posto ad atmosfere drammaticamente tese, fino all’ultima, sofferente, apparizione del soggetto che conduce alla fine di una delle più belle composizioni per quartetto d’archi mai scritte.
Un’esecuzione assolutamente strepitosa, netta e precisa come una pugnalata allo stomaco, in cui i maestri del Quartetto hanno mostrato con chiara efficacia la loro abilità nel saper sfiorare, provocare e plasmare le sensibilità del pubblico, che ha tributato al grande valore dei musicisti applausi tanto lunghi da richiamarli in scena almeno quattro volte. Prima di congedarsi definitivamente dal pubblico pisano, i quattro formidabili musicisti hanno fatto dono di una pagina tanto minuta quanto straordinaria: la Cavatina dal Quartetto op. 130 di Beethoven, cioè il Quartetto di cui faceva originariamente parte la Grande Fuga prima che l’editore decidesse di pubblicare quest’ultima come composizione a parte.

lfmusica@yahoo.com

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