Roma Termini, intervista al regista

 Intervista a Bartolomeo Pampaloni 

Roma Termini (Roma Termini, Bartolomeo Pampaloni, 2014) 

Locandina

La voce ossessiva degli annunci in stazione avrà fatto da colonna sonora alle vostre giornate di “il treno regionale veloce ventitré quarantotto, delle ore venti, e dodici, per, Pisa Centrale, è, in partenza al binario ventotto.” Dicevo, “Attenzione, treno in arrivo al binario tredici, allontanarsi dalla linea gialla”. Be’ scusate, mi allontano un attimo dagli altoparlanti. Ecco, bene o male è questo il sottofondo dell’habitat metropolitano che fa da cornice alle storie mostrate da Bartolomeo Pampaloni nel suo film d’esordio. Disparate possono essere le circostanze della vita per cui ci si trova a fare i conti con la caduta sociale. Un divorzio burrascoso con difficoltà economiche, gravi incomprensioni familiari, dipendenze. Lungi dal voler realizzare un documentario d’inchiesta Pampaloni è il nostro Virgilio in stazione, che ci introduce in una realtà sorprendente quanto vicina e trascurata, presentandoci i personaggi che la abitano e facendoci vivere insieme a loro per il tempo di un film.

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Roma Termini è stato accolto al Festival internazionale del film di Roma 2014, prospettive Italia. Proprio in questi giorni, invece, sarà presentato in anteprima internazionale al Raindance Film Festival di Londra. Cogliamo l’occasione per una chiacchierata con questo interessante autore lucchese classe 1982.

Ciao, Bartolomeo. Innanzitutto complimenti per il film, per iniziare raccontaci un po’ la tua storia e quella di come il film è nato.

Ho studiato cinema a Parigi, dove sono andato a 24 anni e ho girato i primi cortometraggi. Poi sono rientrato in Italia per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. Terminata l’esperienza al CSC volevo realizzare un lungometraggio. Sono da sempre stato vicino alle persone di strada. Mi interessano i mondi di queste persone che possiamo incontrare senza fermarci per scoprire che hanno delle vite incredibili. L’idea per il film nasce dalla consapevolezza che vicino a noi ci sono storie molto forti e per questo non c’è bisogno di andare molto lontano. Queste motivazioni, unite al bisogno viscerale di fare un film sono state elementi base per Roma Termini. Quando ho deciso di voler fare un film per strada ho pensato che sarebbe stato un tema molto dispersivo se non avessi trovato un contenitore. Visto che vivevo a Roma è venuta l’idea naturale di utilizzare la stazione Termini come sfondo. Non c’è stata nessuna sceneggiatura, ho fatto tutto da solo, telecamera in spalla in stazione, niente troupe. Ho cercato dei fondi ma non li ho trovati. Dopo le riprese sono tornato in Francia a montarlo con un amico montatore.

Lavorare con una materia prima diversa rispetto a ciò che può nascere da una base di scrittura. Tu ti sei trovato a ricomporre dei tasselli che in un certo senso hai raccolto durante la tua esperienza a Termini, come è stato lavorare in questo modo?

Il fatto di non avere una sceneggiatura è stata una presa di posizione. Un documentario è un qualche cosa che racconta la realtà, il mio intento era di farlo nella sua ricchezza e complessità. Per questo, incanalare la realtà in una sceneggiatura avrebbe limitato la realtà stessa in un’intenzione o in una presa di posizione. Documentario di inchiesta, reportage, documentario di denuncia sono cose che non mi sono mai interessate e ho sempre creduto che artisticamente rappresentino un grande limite. La realtà è molto più grande di come uno se la immagina. Il mio presupposto era quello di avere dei personaggi, quindi persone di strada, protagonisti, e un contenitore: Roma Termini. Volevo che lo sguardo fosse sempre quello dei protagonisti, senza coinvolgere nessun’altra persona che non fosse qualcuno che vive per strada. Volevo che il tutto fosse incentrato su empatia ed emozione. Per attingere dalla realtà senza esserne sommersi servono comunque dei canali, per me erano solo questi, senza scrittura. E’ stato il quotidiano a dirigere il film, sono state le persone che mano a mano ho incontrato, e che ne hanno fatto parte, che hanno preso in mano il film, guidandomi. Il lavoro di vera e propria scrittura c’è stato durante il montaggio, dove il montatore è stato per me un coautore. Il materiale girato era tanto, i modi per raccontare pure. E’ stato quindi un lavoro di scrittura a posteriori anziché a priori.

Da spettatori possiamo immaginare che il film è solo la punta dell’iceberg della tua esperienza, che per ogni minuto di girato e montato magari c’è un giorno di vissuto, col solo materiale girato quanto sei riuscito a tessere ed architettare le storie?

Infatti non ho girato molto, la maggior parte del quotidiano la spendevo chiacchierando con queste persone. Nel momento in cui iniziava ad accadere qualcosa in pochi secondi ero pronto a registrare. Questo ha fatto la differenza sia dal punto di vista dell’empatia, quindi della relazione umana, che del realismo. Col montatore non abbiamo dovuto ricreare niente, tutto è stato colto sul momento grazie al fatto che io fossi così leggero e da solo. Poi, dal punto di vista del lavoro di costruzione drammaturgica è un film. Un film che procede per scene e blocchi narrativi. Sono partito da quattro storie da intrecciare in una unica, con momenti diversi, alti e bassi, un inizio, uno svolgimento e una fine. Di tutto il lavoro fatto per Roma Termini questa è stata la cosa più difficile, la sfida di non fare delle riprese quattro capitoli a sé stanti ma raccontare parallelamente i personaggi come fossero un unico. Solo in fase di montaggio, superando le difficoltà nel misurare i ritmi narrativi e le pause, siamo riusciti a bilanciare il tutto per dare una dignità artistica a riprese fatte senza una troupe.

Giusto per tastare la realtà del cinema indipendente, una volta terminate le riprese quali sono le dinamiche e le difficoltà operative che un autore indipendente incontra nella fase di post-produzione? Perlomeno, qual è stata la tua esperienza?

Abbiamo lavorato su questo film per circa un anno, durante il quale dovevamo lavorare per vivere. Per questo, ma già durante le riprese, ci sono state delle fasi di arresto. Una piccola produttrice francese poi, ci ha sostenuti per un certo periodo, consentendoci di lavorare a capofitto sul progetto. Il processo di edizione è stato molto lungo. Avevo mandato inizialmente delle immagini montate in fase preliminare, nessuno mi ha risposto. Le mie immagini non sono interessate a nessuno. Ho capito che il film doveva procedere così come era iniziato, in indipendenza solitaria, quasi anarchica. Le acque si sono appena smosse quando il film è stato preso al Festival di Roma. La realtà però è questa. Il film è stato fatto con una camera, un computer portatile e un proiettore.

Non abbiamo parlato molto dell’elemento base, il punto di vista umano. Tu hai vissuto dei mesi insieme a queste persone. A un certo punto del film uno di loro, Antonio mi pare, rivolge lo sguardo in camera chiamandoti per nome: Bartolomeo. Questo momento mi ha trasmesso la loro fiducia in te, il fatto che tu sei stato accolto e a mio avviso stimato per il tuo approccio a questo lavoro. Come sei riuscito a meritarti il posto, ad essere accolto, tu che chiaramente non sei un saccheggiatore affamato di scoop. Quanto c’è voluto perché questo fosse chiaro?

La distanza che prendo da loro è stata poca fin dall’inizio. Nel film non c’è mai l’idea di assistere a un documentario classico in cui le cose si pretende di raccontarle con una certa oggettività. Il meccanismo fondamentale del film che volevo cercare di trasmettere era il fatto di potersi identificare con persone molto lontane da noi. Questo era il presupposto artistico. Di fatto, con loro sono partito da una relazione molto schietta. Hanno capito che io ero lì per nessun altro motivo se non quello di fare un film. Spesso mi chiedevano se fossi un giornalista, uno della TV, da chi fossi mandato: la normale diffidenza che hanno nei confronti di persone che passano in stazione a strappargli una battuta, due immagini. Loro hanno capito che volevo che fossero i reali protagonisti di un racconto e non l’oggetto di uno scoop o di una battuta scandalistica o usati per altri scopi. Partiti da questo fatto, e non avendo neppure io una lira, gli ho offerto comunque qualche pasto chiarendo di non essere neppure un operatore sociale. Ero lì per fare un film. Dati questi fatti di partenza poi le persone con cui ho legato di più sono quelle con cui mi sono trovato umanamente. Escludendo dal montaggio quei personaggi che non potevano darmi continuità per motivi vari, chi vittima di dipendenze, o pazzo, o immigrato che non parla una parola di italiano. Come accade nella vita mi sono trovato di più con persone piuttosto che altre, si è creato un rapporto di interdipendenza, loro avevano bisogno di me come io di loro. La maggior parte del tempo la spendevamo a chiacchierare e loro fondamentalmente avevano bisogno di questo: avere una persona “normale” per parlare. Non ce l’avevano mai, perché le persone che conoscono al massimo gli portavano una pastasciutta o erano altri barboni come loro, con almeno altrettanti problemi. Il rapporto di fiducia è nato dallo spendere costantemente un quotidiano insieme con la telecamera in spalla e non in mezzo a noi.

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Ringraziamo Bartolomeo Pampaloni per il tempo che ci ha concesso, augurandoci di incontrarlo di nuovo dopo i prossimi lavori. Nell’ultima scena di Roma Termini, sotto un portico della stazione dove i clochards dormono tra i cartoni, un foglio di carta straccia fluttua nel vento come per magia, tanto da sembrare un artificio cinematografico. Ci auguriamo che questa magia porti molto lontano. Roma termini è un film che consigliamo vivamente ai lettori di TuttoMondo, un film sorprendente, pieno di dignità, che riesce a parlare delle storie degli emarginati con un occhio mai pietistico. Un film di emozione e di persone. Adesso sarà al Raindance Film Festival a Londra dopodiché ci auguriamo che possa essere distribuito nei nostri cineclub o in televisione. Vi terremo informati affinché possiate vederlo.

Leo D’Arrigo

Tomas Ticciati
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