I Classici : Velluto Blu e gli altri

Le misteriose sincronie nei film notturni degli anni ’80

 

10723647_10152315187366780_87008489_nDopo aver assistito alle giornate del Lucca Film Festival 2014, con la lezione/conversazione di David Lynch e la proiezione di Velluto blu (Blue Velvet, David Lynch, 1986), e grazie anche all’intervento del professore e saggista Roy Menarini, che ha inaugurato la proiezione, ho pensato di dedicare un approfondimento a una manciata di pellicole neo-noir anni ’80: film notturni di autori più o meno famosi usciti tra il 1984 e il 1988.

Intervistato per Fuori Orario da Enrico Ghezzi, sul motivo per cui tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 il cinema horror e fantastico fosse investito da una moltitudine di soggetti che trattavano in modo macabro il tema della nascita e della procreazione, il regista canadese David Cronenberg rispose con le seguenti parole: “io penso che a volte sembra come esserci una misteriosa sincronia tra i film”.

Ecco, la sincronia di cui parlava Cronenberg può essere applicata più volte nella storia del cinema e soprattutto nella storia del cinema di genere. I film che prenderò in esame in questa breve disamina hanno tutti simili caratteristiche, declinate a seconda della poetica del regista. Oltre a Velluto blu, parlerò di Fuori orario (After Hours, Martin Scorsese, 1985), Tutto in una notte (Into The Night, John Landis, 1985), China blue (Crimes Of Passion, Ken Russell, 1984), Urla di mezzanotte (Heart Of Midnight, Matthew Chapman, 1988).

Com’è noto a tutti, Velluto blu esce nell’autunno del 1986 ma il soggetto nasce anni addietro, più precisamente tra The Elephant Man e Dune. La pellicola è figlia di un flop economico di vaste proporzioni: Dune prodotto da De Laurentis con circa 40 milioni di dollari riuscì a incassarne solo 30 e Lynch, deluso dai tagli imposti in sede di montaggio, concordò con il produttore italiano un film a basso budget in modo da ottenere la totale libertà artistica sulla pellicola e sul final-cut.

Alla proiezione avvenuta Lunedì 29 settembre al Cinema Centrale di Lucca, il prof. Menarini ha sostenuto che David Lynch in Velluto blu ha “la capacità di caricare di minaccia qualsiasi oggetto in scena, una realtà quotidiana, una realtà di provincia, una realtà apparentemente semplice che dietro di sé ha tutta l’inquietudine, tutta la perversione, tutta la morbosità, tutta l’oscurità che gli anni ottanta cercavano in verità di spazzare sotto il tappeto”.

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Negli anni ’80 molticineasti hanno avuto una vera e propria fascinazione per gli anni ’50 – basti pensare a Lucas con American Graffiti, Coppola con Peggy Sue si è sposata, Zemeckis con Ritorno al futuro – ambientando direttamente (o fantasticamente) le rispettive pellicole in un’epoca da ricordare ed elevare a età dell’oro. Lynch opera automaticamente su un piano opposto, ovvero mette in luce (o in non-luce) elementi ricorrenti in pellicole coeve di ogni genere, come a esempio la famiglia disfunzionale, la ragazza ingenua ma buona (Laura Dern è più delle volte abbigliata come una teenager degli anni ’50), polizia in bilico tra l’imbambolato e il corrotto, dark lady e droga. 

Velluto blu funziona proprio grazie a questa asincronia tra passato e presente (ormai passato anche quello): è moderno – e anni ’80 – per la voglia di imprimere una forte carica estetica alle inquadrature. È moderno – e anni ’50 – nell’utilizzare, senza risultare retrò e da jukebox gracchiante, canzoni di Tony Bennett e Roy Orbison. Velluto blu funziona sempre, nella cattiveria lisergica di Frank Booth (Dennis Hopper), nella fantasmaticità di Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) e nella dolcezza vaga e vacua di Jeffrey (Kyle MacLachlan) e Sandy (Laura Dern).

Se il cinema di Lynch nasce – come lui stesso ha ripetuto in varie circostanze – dall’amore per un’idea, Velluto blu è da considerarsi come la dichiarazione d’amore verso una rappresentazione nella quale “la mostruosità è una costante divaricazione del reale” (Ghezzi), escludendo al tempo stesso la visione stessa del mostruoso (Jacques Tourneur docet…), e questo avviene per la prima volta in Lynch, dopo i mostri – questa volta concreti – apparsi in Eraserhead e The Elephant Man.

10726726_10152315188401780_596215624_nPuò essere considerata una coincidenza – forse neanche troppo – ma anche Fuori orario di Martin Scorsese nasce da una situazione vicina a quella accaduta a Lynch; il Dune di Scorsese si chiama Re per una notte (The King Of Comedy, Martin Scorsese, 1982). Il film esce nelle sale nel 1982, anche se il soggetto scritto da Paul D. Zimmerman è di dieci anni precedente, e per Scorsese si tratta del primo grande flop della sua carriera. Ecco che nasce Fuori orario, ovvero il desiderio di distaccarsi dalle produzioni hollywoodiane senza però dimenticarsi il pubblico e le majors. Tant’è che con Fuori orario riacquista quella libertà di azione utile al regista di Long Island per raccontare una notte a Soho, New York. E che notte! Il film, da sempre considerato una “commedia degli equivoci”, può essere letto – lo ha fatto notare Gian Carlo Bertolina – come un’ “analisi acuta della progressiva disumanizzazione dell’individuo nell’inferno tecnologico della metropoli, dominato dall’informatica e da un industria culturale che trasforma ogni evento artistico in merce”.

Paul (Griffin Dunne) è un programmatore informatico (l’alienazione lavorativa standardizzata rientra pienamente nei canoni di questo filone) che durante una sera in un bar, durante la lettura di un libro di Henry Miller (Tropico del cancro), incontra l’affascinante Marcy (Rosanna Arquette). Marcy è la prima femme-fatale che lo trascina entro un vero e proprio girone infernale – anche se al posto del fuoco a Soho pare che ci sia solo acqua piovana – fatto di personaggi che riescono a far scivolare la storia sempre sull’orlo di un precipizio di particolari “quotidiani” che in questa circostanza assumono valenze sempre diverse, e sempre virate al macabro. Una storia circolare, “una farsa del subcosciente” (parole di Scorsese), e perché no, anche un sogno, visto che durante una conversazione tra Paul e Marcy vengono tirati in ballo Dorothy e Il mago di Oz: più sogno di così si muore. E ci manca poco che Paul non venga assalito – e forse ucciso – da una gretta ronda cittadina che mal si amalgama alla natura artistica e progressista di un quartiere come Soho.

In Fuori orario vengono messi in mostra dei personaggi stralunati, così distanti dalla realtà – forse la realtà che percepiamo noi oggi – ma allo stesso tempo così pregni di quella cultura newyorkese underground che alla fine dei conti è la vera protagonista della storia.

Il medesimo anno il regista John Landis riprende in mano un soggetto che il giovane sceneggiatore Ron Koslow aveva pronto per Landis già nel 1981. Il regista all’epoca era impegnato nella promozione di Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf In London, John Landis, 1981) e allo stesso tempo stava lavorando in prospettiva per i suoi due seguenti lavori: l’episodio del film Ai confini della realtà e ad Una poltrona per due. Arriviamo al 1985 e Landis, stufo di sentirsi bollato come un autore di commedie, torna a quel soggetto che tanto lo intrigava: inizialmente si parla di Tutto in una notte come un dramma senz’ombra di umorismo (motivo per cui è sicuramente da inserire in questo approfondimento) ma purtroppo – per Landis – la Universal lancia la pellicola con lo slogan “Una storia pericolosamente divertente” ed il pubblico male accoglie i quasi 120 minuti della pellicola.

Tornando alle sincronie di cui parlava Cronenberg, anche qui il protagonista Ed (Jeff Goldblum) è un lavoratore a contatto con i computer e la tecnologia (è ingegnere aerospaziale), alienato, insonne, tradito dalla moglie e generalmente poco incline all’avventura. Cosicché il giorno che decide di volare a Las Vegas per seguire i consigli ludico-sessuali dell’amico e collega Herb (Dan Aykroyd), il povero Ed si ritrova coinvolto/sconvolto in un’avventura larger than life insieme a Diana (Michelle Pfeiffer), un’affascinante e problematica contrabbandiera di smeraldi iraniani.

C’è da dire che l’umorismo – a cui non voleva puntare assolutamente Landis –  è presente in certi frangenti della pellicola ma è un umorismo stemperato da sangue, violenza e demenzialità. Le espressioni, gli inseguimenti e l’uccisione nell’oceano dell’amica di Diana da parte dei quattro sicari iraniani, la strage finale all’aeroporto rappresentano la forma-mentis del cinema di Landis, un vero e proprio terrorista dei generi, famoso sì, ma non ancora compreso dai più.

10719399_10152315187511780_1086297509_nSe in Velluto blu la piccola cittadina di Lumberton evocava sentimenti in bilico tra finta ingenuità e bigottismo, se in Fuori orario New York era quasi ridotta a un misero crocicchio di strade piovose, qualche bar scalcinato e una discoteca rock con insegne al neon, la Los Angeles di Tutto in una notte non si presenta come una città minacciosa in quanto tale, ma rotto lo status-quo (la fallita fuga a Las Vegas) diventa il ricettacolo dei peggiori criminali e malviventi. Ecco, Tutto in una notte può essere letto come l’attrazione oscura verso l’ignota avventura dopo la rottura di una routine lavorativa, sentimentale e familiare.

Facciamo un passo indietro. Nel 1984 il regista inglese Ken Russell, ricordato per titoli come Stati di allucinazione e I diavoli, è autore di China blue: definito dal sottoscritto un neo-neon-noir. Neo perché raramente fino a quel periodo si era visto un film di tale impostazione in grado di contenere sesso, morte, religione, perversione, Magritte, kamasutra in modo mai banale e funzionale al plot. Neon perché per la larga parte del film i volti dei personaggi, le pareti delle stanze, i marciapiedi losangelini sono inondati di luce al neon in quantità tale da definire e modificare i lineamenti di Joanna/China Blue (Kathleen Turner). Noir perché una storia che affonda le radici nelle perversioni più profonde dell’animo umano non può che contenere la vera essenza della morte, dispensata e allo stesso tempo predicata dal reverendo Peter Shayne interpretato magistralmente – forse l’ultimo grande film prima della morte, insieme a Dr. Jekyll e Mr. Hyde: sull’orlo della follia – di Anthony Perkins. Un Perkins che, volente o nolente, alla fine del film si concede un’autocitazione da Psycho con un travestimento-twist che fa da preludio alla fine del film.

Urla di mezzanotte di Matthew Chapman è forse il più lynchiano tra i film elencati e proprio per essere un’opera derivativa – per di più da Lynch – soffre di una narrazione non sempre all’altezza del materiale proposto.

Come abbiamo visto in precedenza, tanti sono i leitmotive che si rincorrono in questi titoli: uno di questi è sicuramente la presenza di un/una giovane di provincia (o di città) che si ritrova entro spazi, luoghi, situazioni (passate o future) che contrastano di netto con il suo status precedente. Il critico Roger Ebert aveva ragione da vendere quando scrisse che Chapman era migliore come regista che come sceneggiatore. Infatti quello che funziona maggiormente in Urla di mezzanotte è l’uso claustrofobico che il regista imprime agli ambienti e soprattutto l’abilità del direttore della fotografia (Ray Rivas) a invadere i corridoi e le pareti di luci rosse, citando allo stesso tempo Argento (Suspiria), Kubrick (Shining), Cronenberg (Videodrome). Urla di mezzanotte non è però solamente un film-patchwork, vive di una buona interpretazione di Jennifer Jason Leigh in bilico tra follia e disperazione, depravazione e ricordi di violenze infantili. Il nightclub che lei eredita da suo zio è la porta verso un passato fatto di angustie pronte a rifarsi vive e minacciarla di nuovo.

Postilla: altre pellicole che consiglio con la medesima impostazione estetico-narrativa possono essere Omicidio a luci rosse (Body Double, Brian DePalma, 1984), Blood simple – sangue facile (Blood Simple, Joel & Ethal Coen, 1984), Vivere e morire a Los Angeles (To Live And Die in L.A., William Friedkin, 1985), Manhunter – frammenti di un omicidio (Manhunter, Michael Mann, 1986), Qualcosa di travolgente (Something Wild, Jonathan Demme, 1986), A distanza ravvicinata (At Close Range, James Foley, 1986).

 

Tomas Ticciati

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