Tra le meraviglie del surrealismo

Viaggio nel surrealismo, dalle origini ai giorni nostri

Prima di addentrarci nel Paese delle meraviglie seguendo il Bianconiglio, fissiamo un piccolo punto: il pop surrealismo è una tendenza della pittura figurativa contemporanea.

TI SVELO UN SEGRETO: TUTTI I MIGLIORI SONO MATTI.

Nel campo dell’arte, “surreale” è un aggettivo polivalente che spesso viene usato in riferimento ad opere inquietanti, assurde o misteriose. La parola fu coniata nel 1917 dal poeta Guillaume Apollinaire (1880–1918) che così definì un suo dramma teatrale dal titolo Le mammelle di Tiresia. Il poeta simbolista André Breton (1896–1966), fondatore del Surrealismo (1924–1945), riprese il neologismo dell’amico scomparso fissandone il significato nel Manifesto del surrealismo (1924): «Surrealismo – Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualunque altro modo, il funzionamento reale del pensiero».

Breton convogliò le energie rivoluzionarie dell’avanguardia Dada conferendo al movimento un’iniziale caratterizzazione letteraria. Rivendicando la discendenza del Surrealismo dal maggior numero di ingegni artistici, indicò come “campioni” del movimento Dante Alighieri e William Shakespeare – presumibilmente scelto per le fate di Sogno di una notte di mezza estate (1595) – presentandoli, senza farsi troppi scrupoli, come scrittori surrealisti. Chiamò a raccolta anche poeti e scrittori più vicini al suo tempo come Stéphane Mallarmé, Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Lewis Carroll, Edgar Allan Poe.

Breton era profondamente interessato alla ricerca di Sigmund Freud sul ruolo dell’inconscio nel comportamento umano, come questo si rivela nel flusso di coscienza spontaneo dei sogni e nelle associazioni “automatiche”. Fu talmente attratto dall’idea di mescolare soggetti casuali che, ispirandosi alla poetica nonsense Dada, ideò un gioco per sé e i suoi amici attraverso il quale creare incongrue combinazioni. Il primo giocatore doveva scrivere una frase su un foglio bianco, piegarlo quanto bastava in modo da nasconderla, e passarlo ad un altro giocatore che doveva fare altrettanto. Alla fine il foglio veniva spiegato e le frasi venivano lette in sequenza, ad alta voce, come un unico testo continuo. Seguivano ore di analisi serissime intervallate da ironici commenti sui nonsense e sulla personalità dei loro autori. Il gioco fu chiamato “Cadavere squisito” da una frase del primo rigo: «Il cadavere squisito berrà vino buono».

Tra le tecniche utilizzate dai membri del movimento per fare arte “automatica”, tra cui il collage e l’assemblage, Max Ernst (1891–1976) scoprì il grattage (raschiamento), il dripping (che sarà reso celebre da Jackson Pollock) e il frottage (strofinamento): una variante della tecnica per la riproduzione dei bassorilievi. Sfregando con una penna, o una matita, un foglio su una superficie ruvida (ad esempio legno, lisca di pesce, corteccia di albero), ne riproduceva la trama e, osservando il risultato, visualizzava “strane immagini”.

Joan Miró (1893–1983) fu tra gli autori più ammirati da Breton il quale lo definì «il più surrealista di tutti noi». Un suo dipinto dal titolo Il Carnevale di Arlecchino (1924–1925) fu il principale argomento di discussione della prima mostra surrealista, tenuta nel novembre 1925 alla Gallèrie Pierre di Parigi. In quest’opera il pittore compose un ricchissimo campionario di elementi sospesi in un bizzarro spazio popolato da forme biomorfiche, insetti, note musicali, pesci e animali, tra i quali spicca un occhio spalancato.

Joan Miró, Il Carnevale di Arlecchino, 1924-1925

Joan Miró, Il Carnevale di Arlecchino, 1924-1925

Sarà Salvador Dalì (1904–1989) a tentare di dare una svolta al movimento realizzando «fotografie dipinte dei sogni». Nei suoi lavori costruisce immagini potenti con la perizia di un maestro rinascimentale, come dimostra il quadro La persistenza della memoria (1931). Nel dipinto, l’atmosfera di una marina mediterranea, una sorta di paradiso terrestre, viene guastata da un’ombra minacciosa che scioglie nel suo abbraccio asfissiante tutto ciò che copre. Solidi orologi da tasca si afflosciano come corpi morti: è l’ossessione per la decadenza fisica e mentale, per la fine del tempo, il terminare della vita.

Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931

Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931

 

Come tutte le forme di pensiero che non accettano le apparenze immediate, il surrealismo non fa che riconoscere la poca realtà del reale, formulare l’idea della realtà dell’immaginario e tentare di collegare l’una all’altro perché si arricchiscano vicendevolmente.

– Edgar Morin –

SII QUEL CHE SEMBRI

Nel 1947 il giovane aspirante artista Eduardo Paolozzi (1924–2005) visita Parigi dove conosce molti dei protagonisti dell’arte moderna, tra cui Tristan Tzara, Alberto Giacometti e Georges Braque. Si immerge nelle idee di Dada e Surrealismo visitando molte mostre tra cui quella dei collage di Ernst, e quella surrealista con una sala che Marcel Duchamp (1887–1968) aveva rivestito di copertine di riviste.

Quello stesso anno realizzò un collage, per la verità un po’ rozzo, con ritagli di rivista e una cartolina disposti poco coerentemente su un cartone malconcio. Il tono dell’insieme è ricco di doppi sensi un po’ insolenti. La maggior parte della composizione è occupata da una pin–up bruna anni Quaranta, ritagliata da una copertina. La attorniano una pubblicità della Coca–Cola, una cartolina con un aereo da guerra, un fetta di torta, il logo della Real Gold (una nota marca di succo d’arancia) e una pistola che punta la ragazza, nel cui sbuffo spicca in rosso la parola “POP!”. In questo collage dal titolo I Was a Rich Man’s Plaything (1947) si trovano già molte caratteristiche della Pop Art che saranno formalmente definite un decennio più tardi: l’attrazione per ciò che è alla moda, giovane, di facile consumo e per i mass media. Paolozzi condivideva questo interesse con alcuni amici che vivevano a Londra, un affiatato gruppo di artisti, architetti, accademici in seguito divenuto celebre col nome di “Indipendent Group”.

Tra loro Richard Hamilton (1922–2011) che partecipa con entusiasmo, nel 1956, alla mostra This Is Tomorrow alla Whitechapel Art Gallery di Londra. Hamilton realizza, con lo stesso metodo di Paolozzi, il poster promozionale dell’esposizione dal titolo Just What Is It That Makes Today’s Homes So Different, So Appealing?. È un’immagine coerente che riproduce una sorta di giardino dell’Eden domestico, dove i novelli Adamo ed Eva che lo abitano non possono resistere alla tentazione: consumare è un dovere. Nel “paradiso in terra” di Hamilton un sereno futuro sarebbe stato pieno di musica pop e film, automobili veloci, gadget, cibo in scatola, elettrodomestici. Con lungimiranza Hamilton definì così la cultura di massa: «popolare, transitoria, consumabile, a basso costo, prodotta in serie, giovane, briosa, sexy, carica di fronzoli, accattivante, con grandi capitali alle spalle».

Richard Hamilton, Just What Is It That Makes Today’s Homes So Different, So Appealing, 1956

Richard Hamilton, Just What Is It That Makes Today’s Homes So Different, So Appealing?,1956

Meno ottimistica e più attenta alle storture della società di massa che iniziava a mostrare le proprie contraddizioni, fu la Pop Art statunitense.

A metà anni cinquanta, a New York, Jasper Johns (n. 1930) rappresenta oggetti quotidiani talmente familiari da essere diventati invisibili, mentre Robert Rauschenberg (1925–2008) compone assemblaggi con oggetti trovati per strada e di riciclo, che chiama combine. Il duo, nell’arte e nella vita, intende reagire allo pseudo eroismo e alla tediosa serietà degli espressionisti astratti (Mark Rotko, Willem De Kooning e Jackson Pollock) che stavano monopolizzando la scena artistica internazionale. Assumono come punto di partenza i readymade “antiretinici” (brutti) di Duchamp. Rauschenberg affermò di voler lavorare «nella distanza tra l’arte e la vita», per scoprire il punto in cui si incontrano fondendosi in una cosa sola: «mi dispiace – affermò in un’intervista – per quelli che pensano che i portasapone e le bottiglie di Coca–Cola siano brutti perché, essendo circondati da cose del genere, devono sentirsi molto infelici». Per lui la strada era la tavolozza e il pavimento era il cavalletto del suo studio.
Un giorno decise di recarsi nell’atelier di Willem de Kooning (1904–1997) per farsi regalare un disegno allo scopo di cancellarlo. De Kooning, che all’epoca era già un pittore di fama internazionale, un vero mostro sacro, acconsentì alla strana richiesta del giovane sfrontato. Gli donò un piccolo lavoro su carta eseguito a pastello, matita, carboncino e pittura a olio precisando, con una certa ironia, che avrebbe dovuto faticare molto per cancellarlo e che, dopo, ne avrebbe sentito la mancanza.

Al termine di un mese di lavoro nacque Erase de Kooning Drawing (1953). Lo scopo  di Rauschenberg era capire se fosse possibile incorporare un disegno in una serie di dipinti interamente bianchi, che aveva realizzato un paio d’anni prima, dal titolo White Paintings (1951). Erase de Kooning Drawing è oggi considerato uno dei primi esempi di performance, mentre i White Paintings hanno precorso il Minimalismo e ispirato, all’amico compositore John Cage (1912–1992), il famoso brano dal titolo 4’33”: quattro minuti e trentatré secondi di un’esperienza sonora che Cage disse di preferire a tutte le altre: il silenzio. Quasi certamente erano anche nei pensieri di Hamilton quando, su richiesta dei Beatles, disegna la copertina del White Album (1968), interamente bianca e con i nomi dei membri del complesso stampati in rilievo.

In quegli anni Andy Warhol (1928–1987), che aveva riscosso un certo successo come pubblicitario, era alla ricerca della propria cifra espressiva. Pensava che le immagini e i prodotti del boom consumistico potessero essere letti in due modi: volgari stereotipi e icone di perfezione. Occorreva qualcosa tanto familiare quanto audace e sfacciato come lo erano i prodotti pubblicizzati. Dopo alcuni tentativi, ispirati ai lavori di Johns e Rauschenberg, una sera a cena da sua madre trovò uno spunto sufficientemente “banale”. A tavola vide di fronte a sé le stesse cose che mangiava da anni: una fetta di pane e una lattina di zuppa Campbell. Nella serie di trentadue dipinti dal titolo Campbell’s Soup Cans (1962) Warhol riuscì a cancellare quasi tutte le tracce del suo intervento. Senza segni stilistici o abbellimenti la mano dell’artista è assente, e la parodia dei mezzi di produzione e persuasione seriale si compie sfidando l’idea tradizionale dell’arte d’autore.

Il suo lavoro assunse valenza sociale e politica crescente nelle opere successive, dove darà una rappresentazione del volto violento e disumano della società americana, compiendo con la sua ricerca artistica una vera e propria indagine antropologica. Nel suo studio, la Factory, transitavano e si mescolavano esponenti alternativi, che guardavano o appartenevano alla cultura underground (come Lou Reed e Jean–Michel Basquiat), anonimi, artisti e star affermate.

Andy Warhol, Polaroid

Andy Warhol, Polaroid

 

Warhol incoraggiava e favoriva le contaminazioni e la libera espressione di ognuno, assecondandole fino agli eccessi. Questo fu anche un modo per “graffiare” la superficie patinata e narcotizzante della società dei consumi mostrando il lato bizzarro, oscuro e contraddittorio della vita reale. Nella serie di cortometraggi in bianco e nero che chiamò Screen Tests (1964–1966), registrò le reazioni dei soggetti che ritraeva, filmandoli in primo piano dopo averli invitati a restare in silenzio e a guardare la telecamera per l’intera durata del “provino” (3-4 minuti).

La serie Campbell’s Soup Cans fu esposta a Los Angeles nella Ferus Gallery di Irving Blum e Walter Hopps. Le tele, ognuna delle quali rappresentava un gusto diverso di zuppa, apparentemente uguali nel loro insieme, furono disposte da Blum su un unico scaffale bianco, come se si trovassero in un negozio di alimentari. Cinque dipinti furono venduti, ma poi Blum pensò che le Campbell’s avessero più valore come opera unitaria. Warhol si dichiarò d’accordo e decisero di riacquistare le tele, vincendo le non poche resistenze degli acquirenti. Tra questi c’era l’attore Dennis Hopper, che nel 1969 dirigerà e interpreterà Easy Rider. Film manifesto dell’epoca, nonché una delle pellicole fondamentali della New Hollywood, narra il viaggio attraverso l’America, da Los Angeles alla Louisiana, di due motociclisti sui loro chopper in totale libertà.

È IMPOSSIBILE, SOLO SE PENSI CHE LO SIA

Nel Pop Surrealismo si mescolano sacro e profano, cultura “alta” e “bassa”, arte e collezionismo, favola e realtà, retrò e kitsch, umorismo leggero e amaro.
Il movimento ebbe inizio negli anni Sessanta in California attingendo alla cultura diffusa dei comix underground, dei tatoo, dei biker e dei cultori delle hot rod: auto vintage, spesso scarti di produzione acquistati a basso costo, che venivano modificate con motori truccati e rivestite con carrozzerie sgargianti dipinte con l’aerografo. Un immaginario visivo che si arricchì negli anni Settanta con suggestioni tratte dal punk–rock, dalla psichedelica, dalla fantascienza, dall’orror, dal graffitismo.

Se è vero che uno dei mezzi privilegiati del Pop Surrealismo è la pittura, molti autori di questo ambito artistico hanno realizzato opere di scultura, digital art, design di giocattoli.

La voce critica e di diffusione del movimento è il magazine di arte e cultura Juxtapoz, fondato nel 1994 dall’esponente storico del movimento Robert Williams (n. 1943), con sede a San Francisco. Proprio la Ferus Gallery (1957–1966), dove Warhol esordì, è considerata la pietra di paragone culturale della rivista: libera da convenzioni, attenta a nuove forme di espressione e sperimentazione estranee al mondo dell’arte “ufficiale”.

Robert Williams, A White Knuckle Ride for Lucky St. Christopher, 1992

Robert Williams, A White Knuckle Ride for Lucky St. Christopher, 1992

Altra figura storica del movimento è Robert Crumb (n. 1943). Sua è la copertina di Cheap Thrills, uno dei più noti album di Janis Joplin. Crumb creò un nuovo genere di immagini psichedeliche con Ed Roth, unendo la cultura della California con stili cinematografici e apocalittici. Il suo lavoro più famoso è forse l’Appetite for Destruction, prima copertina dell’omonimo album della band Guns N’ Roses, poi ritirato dal mercato perché pubblicato senza autorizzazione, in seguito a pressioni della casa di produzione.

Con un articolo pubblicato su Juxtapoz, nel febbraio 2006, Williams conia il termine “Lowbrow”, dando così un nome al movimento precedentemente indicato come Pop Surrealism. Da allora i due termini coesistono e vengono usati in maniera intercambiabile. L’intervento segna una sottile distinzione tra due orientamenti del movimento che progressivamente si è arricchito di nuovi contributi culturali. A tal proposito, Kirsten Anderson fondatrice nel 1996 della galleria Roq La Rue di Seattle, prima a trattare esclusivamente opere pop surrealiste, afferma:

Penso che l’arte Lowbrow sarà sempre in giro in qualche forma, e che il Pop Surrealism sia soltanto più accessibile. Non credo che questi due movimenti siano completamente diversi … Penso che quello che oggi è comunemente noto come Pop Surrealism, sia scaturito dalle opportunità aperte dalla fioritura del movimento Lowbrow, gli artisti appartengono allo stesso gruppo.

Altra anima del Pop Surrealismo è Mark Ryden che collabora alla rivista. I suoi lavori traggono ispirazione dalle tele di Hieronymus Bosch, Salvador Dalí, René Magritte. Agli inizi degli anni novanta diviene uno dei massimi esponenti del movimento, i suoi soggetti preferiti sono l’ex presidente Abraham Lincoln e l’attrice Christina Ricci. Ha ritratto personaggi del mondo Hollywoodiano come Leonardo DiCaprio, suo grande fan. Si è guadagnato fama nel 1991 eseguendo la copertina dell’album di Michael Jackson Dangerous. Nel 1994 ha curato copertina e libretto dell’album dei Red Hot Chili Peppers One Hot Minute.

Mark Ryden, copertina di Dangerous, Michael Jackson, 1994

Mark Ryden, copertina di Dangerous, Michael Jackson, 1994

La prima galleria italiana ad occuparsi di arte Lowbrow fu la bolognese Mondo Bizzarro Gallery di Alessandro Papa e Gloria Bazocchi. La sua attività iniziò come libreria underground nel 1995 per poi trasformarsi, sul finire degli anni Novanta, in una delle gallerie più attive nell’importazione di artisti americani riconducibili a questo movimento.

Altra galleria di rilievo è la romana Dorothy Circus Gallery diretta da Alexandra Mazzanti. Nel 2010, presso il Museo Carandente di Spoleto, Alexandra Mazzanti cura una delle più complete mostre italiane su questo movimento, dal titolo Pop Surrealism: What a WonderFool world, radunando gran parte degli artisti americani ed europei: tra i più conosciuti, oltre a Mark Ryden, sono presenti Joe Sorren, Todd Schorr, Shepard Fairey, Marion Peck, Camille Rose Garcia, Alex Gross e le due esponenti italiane Niba (alias Michela Nibaldi) e Nicoletta Ceccoli illustratrice di libri per l’infanzia. Questa la presentazione della mostra: «In perfetta sintonia con le radici surrealiste degli anni Trenta, le profezie figurative del pop si rigenerano in un costante movimento tra registrazione del reale e immediata rielaborazione onirica. Paesaggi, corpi, animali, storie, natura, oggetti: è questo il mondo reinterpretato in chiave pop surrealista. Un metaspazio dove tutto somiglia al reale, ma dove si percepiscono atmosfere sospese, un senso di attesa spasmodica e silenziosa, di dubbio o pericolo, di silenzi anormali o strani rumori in arrivo. Un mondo somigliante al nostro che, richiamando e rivoltando certe matrici paesaggistiche, domestiche e individuali, riattinge alla tecnica pittorica classica. Una pittura che predilige i soggetti dell’iconografia pop divulgati dai media del loisir e legati all’immaginario collettivo, proponendo soggetti presenti nelle nostre coscienze dal mondo delle fiabe in poi. I temi spaziano dalla vitalità pratica del vivere ai riferimenti tra infanzia e adolescenza, alle aspirazioni morali e alle cronache del quotidiano. Allo stesso tempo superano l’inaspettato, toccando le fisionomie del fantastico metropolitano ricreando un possibile surrealismo contemporaneo, figlio di un’epoca trasversale, polivalente, elettronica».

Nicoletta Ceccoli, Nascondino, 2012

Nicoletta Ceccoli, Nascondino, 2012

Lo stile adottato da molti esponenti del Pop Surrealismo ricorda atmosfere vittoriane (Inghilterra, 1837–1901), come le fate/bambola dal gusto ibrido, elegante e grottesco di Ray Caesar, altro autore di punta del movimento. Generalmente considerata una forma di escapismo, la fairy painting (pittura di fate), fece da corona al revival tipicamente vittoriano del fantastico: vero e proprio fenomeno culturale legato alle opere di Shakespeare, alle fiabe e alla fortunata letteratura per l’infanzia di Lewis Carroll (1832–1898), autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (1871). La rivoluzione industriale, secondo critici come Jeremy Maas, aveva lasciato nel pubblico un forte senso di disorientamento e sradicamento, che la mitologia e il fantastico colmavano con raffigurazioni di antichi mondi e tradizioni perdute.

Nell’evasione postmoderna dei nostri giorni l’identità si costruisce sul come si viene percepiti dagli altri. Il mondo diviene uno specchio. Il corpo è una macchina prestante ed efficiente che può essere manipolato a piacimento senza limiti né inibizioni.

Nella costruzione dei film di Terry Gilliam (regista di Brazil, 1985 e Parnassus, 2009) elementi eterogenei e citazioni si intrecciano senza ordine gerarchico in una sfrenata esuberanza scenografica, cromatica e luministica, con una messa in scena eclettica che alterna sequenze girate con stile disteso a passaggi visionari, che nella fotografia kitsch pop surrealista di David LaChapelle assumono le tinte inquiete di un’epopea della crisi.

David LaChapelle, After the deluge: cathedral, 2007

David LaChapelle, After the deluge: cathedral, 2007

L’io rappresentato dai surrealisti, riaffiora dal profondo per rivelarsi in superficie. Eludendo le barriere della razionalità, mostra l’animo nella sua cruda essenza. Nelle elusioni e trasformazioni Pop gioca, invece, a nascondersi dietro le infinite parvenze di un’immagine superficiale, manipolabile a piacimento, cangiante, inafferrabile come può esserlo un corpo macchina, liberato da inibizioni di genere, orientamento, comportamento.
L’individuo non può che uscirne un po’ stordito e un po’ perplesso.

Tim Burton (regia di), Alice in Wonderland, 2010

Tim Burton (regia di), Alice in Wonderland, 2010

 

CHE DIFFERENZA C’È TRA UN CORVO E UNO SCRITTOIO?

Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero.
«Che strada devo prendere?» chiese.
La risposta fu una domanda:
«Dove vuoi andare?»
«Non lo so», rispose Alice.
«Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza».

Enzo Lamassa

Condividi l'articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.