Solo con gli occhi – di Samuele Anfuso

All’interno spazio “Carcere diritti e volontariato” continua il nostro viaggio alla scoperta del mondo che sta dietro le mura carcerarie, e sopratutto alla scoperta dell’umanità che spesso vi si nasconde. Oggi pubblichiamo un racconto scritto da Samuele Anfuso, che ha preso parte al corso di scritttura all’interno del carcere. Samuele Anfuso durante la sua detenzione ha scritto diverse poesie e qualche racconto breve. “Solo con gli occhi” è uno di questi. Samuele Anfuso è uscito dal carcere a fine 2023

solo con gli occhi

Odore di disinfettante. La realtà entra dagli occhi con la forza di una valanga. Neon, pareti bianche, caleidoscopio di luci cittadine dalla finestra. Come mattoncini Lego, i ricordi costruiscono il suo passato dando a Luca il senso di sé. Ma nessuna informazione riesce a fendere la nebbia del suo presente. Quando gli occhi esauriscono la loro capacità di rotazione, senza riflettere, il cervello ordina ai muscoli del collo di far spostare la testa. Loro non reagiscono. Non è possibile. Prova a muovere una mano. Niente. Prova a urlare tutto il suo terrore. Silenzio.

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«Signor Pardi lei ha avuto un bruttissimo incidente con la macchina: le sue condizioni sono gravi,  ma non è in pericolo di vita. E’ un miracolo che sia ancora qui con noi». Il dottore è davanti a lui, una brava persona, un bravo medico che nella sua lunga esperienza, sa che non esistono fronzoli che possano migliorare la percezione della tragedia che i suoi parenti si ritrovano a vivere. Il reparto di rianimazione è un reparto molto particolare. Lì si vivono grandi gioie quando si riportano alla vita le persone, ma, a volte i ritorni si trasformano in ergastoli. Reclusioni senza fine nel luogo più piccolo che un’anima possa abitare: un ammasso di carne inerte che non si riesce più a sentire come proprio.

Luca è lì e guarda il suo dottore. Lo odia, come odia tutto ciò che lo circonda. Odia anche sua madre appesa a quel pezzo di ciccia che una volta era la sua mano. Lei piange, singhiozza, lo guarda con infinito amore, Luca non può, Luca ha un solo desiderio, morire il prima possibile.

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«Miracolo un cazzo» pensa Luca. E’ un’ora che sta urlando la sua rabbia, strozzando tutte le persone che entrano nella sua visuale, spaccando tutti gli oggetti che gli captano a tiro: Ma niente e nessuno se ne accorge. Tutto rimane come prima. Il massimo che riesce a esprimere sono due occhi fiammeggianti che si muovono impazziti nelle orbite.

Quando Rebecca entra, Luca ferma lo sguardo, lei si avvicina, non riesce a toccarlo, comunque lui non se ne accorgerebbe.

«Ciao amore…»  Il “come stai?”  le rimane bloccato in gola. Domanda stupida. La pietà della ragazza lo colpisce allo stomaco e un dolore incredibile accompagna la consapevolezza che il suo futuro non sarà né con lei né con nessun’altra. Tutto ciò che è relazione necessita di almeno due parti che scambino qualcosa. Chiunque volesse accompagnarlo nell’inferno che lo aspetta, dovrebbe accontentarsi di un monologo, essere dotato di una pazienza infinita ed entrare almeno in parte nella sua prigione per rimanerne incatenato, volontariamente. Vorrebbe dirle di andarsene, di lasciarlo solo, di farsi una vita lontano da lui, ma non può e, quando lei se ne va, ha una nuova consapevolezza: anche l’interruzione di una relazione non è qualcosa che lui possa gestire. La sua non sarà una vita da protagonista, ma dipenderà dagli altri. In tutto.

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Le sue funzioni biologiche sono gestite da macchine. Senza di loro morirebbe soffocato dal suo stesso catarro, immerso nella sua merda: una morte molto poco onorevole che lui desidera con tutto se stesso. Quanta ipocrisia. Ricorda Max, il loro pastore tedesco che raggiunti i sette anni, affetto da displasia, trascinava le gambe posteriori, completamente inerti. Ricorda lui bambino che non capiva le parole con le quali i genitori provavano a spiegargli la necessità di uccidere quell’essere speciale cui era molto legato. Dicevano, allora, che una vita è degna di essere vissuta solo quando sia qualitativamente accettabile, parole come compassione, empatia, pietas, condivano questa affermazione in modo molto convincente. Per lui no. Lui deve soffrire per soddisfare l’egoismo degli altri, lui non può più decidere di sé, che stronzi.

“Fanculo, brutti bastardi, lasciatemi andare, io sono messo peggio di Max, come fate a non vederlo?”

Piaghe da decubito, respirazione artificiale, atrofia muscolare sono solo alcuni dei problemi che il suo corpo si trova ad affrontare. Luca non sente nulla, sa di questo grazie ai commenti degli infermieri che si occupano di lui. Ora sa cosa vuol dire essere passivo, totalmente.

Poi, una mattina, entra Anna e tutto cambia. Anna è un’esperta nel suo campo, aiuta quelli come lui a comunicare con gli occhi, grazie a uno schermo munito di telecamera e a un software che traduce battiti di palpebre e movimento oculare in un linguaggio in grado di far uscire da quel guscio vuoto la sua opinione, il suo pensiero.

Se gli angeli esistono, pensa Luca, hanno le sembianze di Anna. Una donna robusta, gioviale, di mezz’età, con un viso tondo, circondato da boccoli di un improbabile arancione acceso. Lei è la chiave. La chiave per riacquistare  la sua capacità di autodeterminazione, per raggiungere la sua libertà, la libertà di morire.

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Ora Luca comunica ma nessuno raccoglie il suo unico grido di disperazione. Rispondono fischi per fiaschi. Gli dicono che deve farsi forza, che deve superare quel momento in cui vede tutto nero. Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere. La realtà vera è che è tutto nero e che l’unica opinione che non conta è la sua. Quantomeno ora può mandare a fanculo tutti. Può far sentire la sua voce, anche se preferirebbe gustare il sapore delle offese che elargisce in maniera così generosa invece del suono metallico che la macchina emette. Non si può avere tutto dalla vita.

La madre di Luca, Francesca, aspetta Rebecca fuori dalla porta dell’ospedale,  accarezzata dalla luce tiepida del sole invernale. Si accende una sigaretta con mani tremanti.  Quanta fatica le costa nascondere le lacrime che versa in continuazione tranne che in quelle due ore quotidiane in cui indossa la sua maschera migliore, cercando di infondere voglia di vivere al figlio. Quanta fatica digerire quel fiume di offese metalliche che lui le vomita addosso, sempre. Non è vero che non capisce, ha compreso benissimo quell’unica richiesta, ma non ce la fa. Razionalmente sa che Luca ha ragione, ha ragione da vendere, ma lei è la madre, tutto in lei si rifiuta di agire per aiutare suo figlio a morire.

Rebecca esce, si guardano a lungo, si abbracciano. Non esistono parole che possano comunicare meglio quella loro unione profonda. E’ una prima volta, in tanti anni di formalità distaccata, che si sentono così vicine.

«Francesca, io non ce la faccio.  Sono una merda, me ne vergogno, ma questo per me è troppo. Voglio bene a Luca, ma ho bisogno di prendermi un po’ di tempo, scusami» .

«Prenditi il tempo che ti serve, nessuno di noi poteva essere preparato a questo. Che Dio ci aiuti» .

Francesca guarda Rebecca allontanarsi, è giusto così, nessuno può compensare la disperazione di suo figlio, neanche lei.

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Luca ha bisogno di alleati che facciano quello che lui ritiene giusto, senza farsi influenzare da ciò che dicono la legge, la chiesa, i parenti, i dottori.  Ha bisogno di qualcuno che faccia da strumento che l’aiuti a realizzare il suo obbiettivo. L’unico che corrisponde a questo identikit  è Marco, amico fraterno, fedele. Non l’ha ancora visto tra quelli che hanno partecipato alla processione a rate che, nelle due ore di visita quotidiana, ha visto sfilare ai piedi del suo letto parenti, amici, vicini. Tutti shockati, profondamente addolorati e falsamente positivi nell’inutile tentativo di dipingere, con colori accesi, un quadro nero, scuro, terribile. Marco non è venuto non perché non soffre per il destino infame che è toccato a Luca, ma, al contrario, per l’incapacità di partecipare a quel festino dell’ipocrisia. Loro non si sono mai detti bugie e ora non è sicuramente il momento di incominciare a farlo. Luca è lì, con sua madre e le sta dettando una lettera per Marco. La lettera finisce così: «Marco, ho bisogno di te, ora più che mai; ho bisogno del tuo aiuto, della tua onestà, della tua amicizia. Prendi il coraggio a due manie vienimi a trovare. Poi ti spiego, non mi abbandonare. Ti  voglio bene» 

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Fuori piove, c’è solo sua madre, l’ultima a non arrendersi all’evidenza, alla sentenza senza appello che il destino ha riservato al suo unico figlio. Voluto, amato, adorato. Distrutto, incazzato…. senza  speranza. 

 

Finalmente  Marco è apparso sulla porta. Immobile, con una pozza d’acqua che si sta formando, goccia dopo goccia ai suoi piedi. Marco odia gli ombrelli. Nel momento stesso in cui gli occhi dei due amici si incontrano, Luca si rende conto che Marco è l’unico vero alleato che ha, in cui riesce a specchiarsi per quello che è. Un viso dove le forti emozioni creano solchi profondi. Luca ci legge dentro come in un libro aperto, conosce Marco anche più di se stesso. Amore, dolore, disperazione, rabbia, senso di colpa. Si avvicina, l’acqua che scivola dai capelli nasconde le lacrime, non una parola. Anche Luca non vuole usare la macchina e quel silenzio intenso, carico di significato si prolunga all’infinito. Poi Marco fa qualcosa che nessuno aveva ancora fatto. Appoggia le labbra sulla fronte di Luca, lì dove la pelle ancora sente. Alcune gocce di acqua (o lacrime) aprono le porte del cuore, creano una comunione di anime. Magia vera e propria.

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Marco ascolta, ma fa qualcosa di più, capisce e, di più ancora, condivide. E’ l’empatia, il rispetto, l’affetto a guidarlo, non sa ancora come, ma aiuterà Luca a morire, glielo deve. Appena rientra in casa, si tuffa dentro il computer e apre l’universo “Eutanasia”, un labirinto di leggi, informazioni, opinioni, in cui lui si trova a navigare. La prima impressione è che sia un gran casino. Una certezza lo accompagna quando abbassa lo schermo del portatile: l’eutanasia è vietata, ufficiosamente molto applicata e costa un bel po’ di soldi. Ha seguito dei link di alcune associazioni che si occupano di aiutare persone come Luca a lasciare questa valle di lacrime e a smettere di soffrire.

Si mette in terrazza, si apre una birra, si accende una sigaretta e guarda l’orizzonte. Poi scoppia, si alza e con un urlo terrificante, lancia la birra contro il muro. Un’esplosione di schiuma, schegge di vetro tutt’intorno all’impatto. Piange, il viso una maschera di disperazione, continua a ripetere un mantra di no, si inginocchia, l’uragano è passato, ma questa è una di quelle ferite che rimangono, è inguaribile e l’accompagnerà per tutta la vita.

Quando rientra, trova sua madre a braccia aperte e lui ci si rifugia dentro. Come quando era bambino, lei lo accoglie, lo conforta e, alla fine, lo accompagna a letto. Attende che Marco si addormenti, rientra in cucina e, solo allora, anche lei si abbandona a un pianto desolato.  Nell’aria ancora aleggia la domanda delle domande:

“perché proprio a Luca?”

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Qui e ora. L’unica cosa che conta: il presente. Il passato è dissolto. Il futuro non esiste. Questo non è il tempo dei “se” e dei “ma”. Questo è il tempo della coscienza, dell’accettazione, del trovare soluzioni. E’ un Marco rinnovato, quello che si risveglia al mattino. La nebbia si è diradata, è pronto ad agire, a combattere. Non farà il guerriero, lui sarà guerriero, cavaliere di sorella morte, ultimo strumento divino di giustizia e di umanità. Accende il computer e invia mail in ogni direzione, messaggi in bottiglie lasciate alla deriva della corrente vorticosa del web. Ora deve solo attendere, sperando che siano molte le mani tese a uscire dal virtuale per dare un aiuto concreto.

Spes contra spem. Non avere speranza, essere speranza.

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E’ un limbo delicato quello in cui si trovano ad agire gli attori dello spettacolo, chiamato vita, nella sua ultima scena.  Bisogna camminare in punta di piedi, proporre senza imporre, essere completamente al servizio del protagonista. Disposti anche a sacrificare parte delle proprie certezze, opinioni, convinzioni. Bisogna respingere gli attacchi che, inevitabilmente, arriveranno da tutte le direzioni e proseguire il cammino, senza farsi distrarre, un passo dopo l’altro.

Sono tutti nella stanza di Luca: c’è Marco, c’è Rebecca, ci sono i genitori, Francesca e Bruno, c’è Anna e, nel suo completo elegantissimo, c’è l’avvocato Frescobaldi.

«Signor Pardi, le devo chiedere se vuole condividere le informazioni che sto per darle con le persone qui presenti. >>

Risponde la macchina:

«certamente, signor Frescobaldi, ma vorrei che mi chiamaste Luca, sa, da ora in poi condivideremo talmente tante cose talmente personali che sarebbe assurdo mantenere questa formalità» .

«Se non le dispiace vorrei continuare a darle del lei, è professionalmente più corretto. Comunque le garantisco il massimo impegno e la massima partecipazione oltre ad assicurarle che sarò dalla sua parte, sempre» .

«Come vuole; mi aggiorni sullo stato dell’arte» .

«Lei ha due opzioni per raggiungere l’obbiettivo che si è prefissato: la prima è uno scritto in cui chiede di staccare le macchine e attendere il sopraggiungere della morte sotto sedazione; la seconda è di viaggiare in Svizzera dove  esistono delle cliniche specializzate nell’eutanasia. Ci sono vantaggi e svantaggi in tutte e due, sta a lei scegliere» .

«Spieghi meglio» .

«In Italia è legale solo la prima opzione. Qui sarebbe un iter più semplice, più economico, ma, naturalmente, il morire soffocato anche se sedato, non è il massimo. La seconda opzione presenta rischi legali per chi la accompagnerebbe alla clinica. Si dovrebbe affrontare un processo complesso, lungo e costoso, con il rischio di essere condannati per istigazione al suicidio» .

Luca guarda il suo avvocato, è soddisfatto della sua chiarezza, della sua capacità di sintesi, è la persona giusta a cui affiderà quel che rimane di se stesso, fino alla fine.

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E’ una di quelle giornate ventose in cui le foglie disegnano ghirigori, volano e poi atterrano formando mucchi negli angoli delle case. Bruno alza il bavero del suo cappotto, chiude la sua utilitaria e si avvia verso l’entrata dell’ospedale. Operaio in un calzaturificio, di poche parole, apparentemente impermeabile alle emozioni, fino ad allora aveva condotto una vita di sacrifici, godendo di quella monotona quotidianità che per molti sarebbe stata noiosa, triste. Per lui no. Lui sapeva trarre felicità dalla macchina pagata a rate, dalla casa comprata con un mutuo trentennale, dal dolce affetto che sua moglie gli dimostrava con i piatti che cucinava, i panni che lavava, il calore degli sporadici rapporti sessuali, la cura del figlio. Robusto, non molto alto, capelli corti, brizzolati ormai da molti anni, occhi neri, profondi. Dall’incidente sembra camminare con un masso troppo pesante sulle spalle e i suoi piedi strascicano mentre lo portano verso quell’incubo da cui non si può risvegliare.

«Ciao Luca» .

«Ciao Pa’» .

Il loro non è mai stato un rapporto basato sulla comunicazione. Bruno ama suo figlio, Luca ama suo padre. Semplicemente non sentono il bisogno di rappresentare questo sentimento attraverso le parole.

«Hai fatto la tua scelta?» 

«Ancora no. Naturalmente preferirei andare in Svizzera, ma non possiamo permettercelo e non voglio che qualcuno venga perseguito dopo la mia morte» .

«Ho preso l’anticipo del TFR e non ho paura di niente e di nessuno. Sarò io ad accompagnarti» .

Gli occhi parlano di una decisione già presa. Come sempre Bruno si dimostra un uomo del fare, solido.

«Grazie Pa’» .

Bruno si avvicina e abbraccia suo figlio per la prima volta, forse anche l’ultima.

Quando esce dall’ospedale  non è il vento a fargli sentire freddo. Il suo è un freddo dell’anima, e un’unica lacrima cade, immediatamente asciugata dal dorso della sua mano tozza. E’ come se non fosse mai caduta, Bruno non piange, mai.

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 Toc – Toc

Luca gira gli occhi verso la porta d’ingresso della sua stanza e vede una comitiva nerovestita tutta sorridente.

«Permesso» .

Don Giulio entra accompagnato da due suore e si avvicina al letto.

«Sono il parroco del paese, mi chiamo Giulio. Queste sono Suor Enrica e Suor Beatrice. Siamo passati a portarti un po’ di conforto» .

La macchina risponde:

«questo è da vedere, comunque quando si chiede permesso, di solito si aspetta di essere invitati per entrare» .

Don Giulio non si scompone, è abituato alle reazioni puntute dei pazienti di quel reparto.

«Scusami Luca, hai ragione, immagino che tu stia vivendo un’enorme tragedia, sappi che potrai contare sempre nel nostro sostegno» .

«Mi scusi, non mi sembrava di averle detto il mio nome, comunque preferirei che mi deste del lei» .

Nella stanza si abbassa immediatamente la temperatura. E’ un Don Giulio imbarazzato quello che prova a rimediare a quella gaffe.

«Certo, mi scusi, spero che questo mio errore non comprometta la possibilità di avere un dialogo costruttivo. Provo a ricominciare da capo. Come si sente Signor Pardi?» 

«Di merda. Immagino che qualche uccellino le abbia riferito la mia volontà di porre fine a questa condizione che non si può chiamare vita.» 

«Ok, giochiamo a carte scoperte. E’ vero, l’ho saputo e spero di poter trovare le parole giuste per farle cambiare idea. La vita è sacra e i disegni di Dio sono imperscrutabili. Si affidi alla fede, rientri nella grazia del Signore» .

«Se sono imperscrutabili, anche lei non li conosce. Potrebbe essere che Dio, o chi per lui, abbia disegnato la mia morte e che avermela negata si prefiguri come peccato di superbia? » 

“Questo è un osso duro“  Pensa Don Giulio.

«Forse lei ha ragione, ma è un dato di fatto che lei ora sia vivo e che decidere di suicidarsi sia sicuramente un peccato gravissimo. Si faccia aiutare ad accettare questa terribile condizione e a trovare conforto nella preghiera e nella fede. Si faccia accompagnare verso la luce e si affidi totalmente a Dio. Io la terrò per mano.» .

Ora Luca è veramente incazzato, peccato che la macchina non sappia urlare, potrebbe sfondare i timpani a questo corvaccio.

«Lei non si deve permettere. Lei non ha il diritto di giudicare le mie scelte. Lei dovrebbe essere guidato dall’amore, dalla compassione invece che fare il cane scodinzolante della dottrina della Chiesa. Si vergogni» .

In quel momento entra Bruno, gira lo sguardo da suo figlio a quella nera comitiva. Poi esplode:

«Fuori. Fuori da questa stanza.» 

Occhi di fuoco, mani tremanti, schiuma bianca agli angoli della bocca, Bruno è una belva. Don Giulio e le due suore rinculano con la coda tra le gambe.

«Non te la prendere, Pa’, aspettavo una loro visita, speriamo che non si facciano più vedere.» 

«Lo spero per loro.» .

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Che fatica. Quello appena passato, per Luca, è stato un anno molto impegnativo. Ora è tutto pronto. L’avvocato Frescobaldi ha appena fatto firmare, attraverso un complesso sistema burocratico per validare un consenso espresso attraverso una macchina, tutti i fogli necessari per affrontare il processo che, inevitabilmente, si aprirà dopo la morte di Luca.

Don Giulio e le associazioni pro-vita sono stati respinti molte volte. Marco è stato il tramite con il gruppo di volontari del partito radicale che hanno indicato la via da seguire e i tranelli da evitare. Rebecca ha un nuovo compagno, ma ora è lì, presente, per l’ultimo saluto. Con il dottore, gli infermieri, c’è Anna, chi meglio di loro può sapere che l’eutanasia, nel caso di Luca, sia legittima, anzi giusta. Francesca no, non ha mai detto, né fatto, qualcosa che potesse andare in quella direzione. Luca la conosce, non se l’è presa, la ama così com’è. Poi c’è Bruno, la roccia che non ha mai tremato, non ha mai avuto un tentennamento, sempre a sostenerlo, al suo fianco.

«Pa’, Ma’, amici, grazie. Grazie di tutto, vi voglio bene, immaginatemi lì, vicino a voi, che vi abbraccio, uno per uno. Ce l’abbiamo fatta, è stata dura ma ce l’abbiamo fatta. Non siate tristi, la morte è altrettanto naturale della vita, un passaggio al quale nessuno può sottrarsi e io me ne sono sottratto anche per troppo tempo. Finalmente ho riacquistato la mia libertà di scelta e, vi giuro, non sono mai stato così consapevole, cosciente, come lo sono ora. Vi amo. Addio.» 

Nessuno dice niente, l’aria è carica di emozione, occhi lucidi e cuori tristi. Luca se ne sta andando, questo è il suo destino, questa la sua volontà.

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“Sono in paradiso”, pensa Luca quando scende dall’ambulanza che l’ha accompagnato. Montagne  innevate, foreste di abeti, prati infiniti e, in mezzo a uno di questi, una splendida villa dall’aria un po’ vintage. Tutto sembra tranne che un luogo di morte. La Svizzera che lo abbraccia ha un volto dolce, rassicurante. Una Svizzera indipendente da tutto e tutti è il grembo fertile di un evoluto senso civico che, laicamente, permette di decidere di sé.

Viene accolto, insieme al padre, con cordialità da personale professionalmente molto preparato e sistemato in una grande camera, arredata con cura. Un’enorme finestra permette a Luca di godere di tutta quella bellezza con l’unica parte di sé che ancora gli appartiene: gli occhi.

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Oggi è il giorno. Ha superato tutti i controlli ai quali, doverosamente, un team di esperti lo ha sottoposto. Luca ha il diritto di morire. E’ una sua scelta, libera, cosciente, consapevole.

E’ una splendida giornata, l’aria limpidissima rende quei paesaggi ancora più belli e Luca ne gode, pervaso, finalmente, da una pace infinita. Paradossalmente aspira sereno a questo momento, ha abbandonato ogni tensione, ogni incazzatura, sa di essere nel momento e nel posto giusto per lasciare il suo corpo. Un corpo ormai senza muscoli, prosciugato, ospita la sua anima. Ha smesso di pensare anche a quello. Non gliene frega un cazzo se la sua anima sopravviverà o meno. E’ pronto. Davanti a sé ha una flebo con, all’interno, la dolce compassionevole sorella morte.

«Addio Pa’, grazie, state bene» .

«Ci proveremo, addio Luca» .

Bruno si avvicina, lo bacia sulla fronte, si allontana senza staccare gli occhi dal figlio. Fa un cenno col capo. Luca guarda la macchina, dà l’ultimo consenso. Il liquido trasparente entra in circolo, finalmente è libero.

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