CASTELFRANCO DI SOTTO (PI) – Nei giorni 8, 9 e 10 luglio si è tenuto il Sandwich Music Fest, rassegna musicale che ha portato nella piccola cittadina birra artigianale, funambolismo, cantaurori e gruppi rock: WOW, Q-Yes, Giovanni Truppi, Matteo Fiorino, Venus In Furs e La Maison. Nella racchiusa atmosfera di Via Biagi dove era stato posizionato il palco, la sera del 9 luglio si è esibito il cantautore spezzino Matteo Fiorino, attualmente in tour con diverse date che lo hanno portato anche al Tuscania Festival. L’artista a gennaio 2015 ha pubblicato il suo primo album candidato alla Targa Tenco per “Opera Prima”, Il masochismo provoca dipendenza (Frivola Records/Audioglobe) e sta attualmente lavorando a un nuovo album per Phonarchia dischi. Fiorino è stato anche finalista ad Arezzo Wave 2016 e al Premio Buscaglione, e recentemente si è aggiudicato il Premio King Kong Radio1.
Cominciamo con un’interpretazione. Tra tutti i pezzi del suo primo lavoro uno in particolare colpisce: Esca per le acciughe. Testo onirico in apparenza. È una metafora che vuole indicare l’abboccare ai numerosi e subdoli inganni della vita?
«Finalmente, indovinato! Finalmente una frase con cui spiegare questo pezzo. Nello specifico questa canzone parla di chi si conserva e si cristallizza nell’illusione di un ritorno, di chi spera che una persona, una ex, una situazione particolare ritorni. E nella canzone c’è una persona che lancia messaggi, che ti illude che ti dice “tornerò” ma che non torna nel concreto. Questa metafora dell’esca vale per tutti i piccoli inganni della vita che sono subdoli, ma che sommati fanno peggio di un boccone gigantesco, di un inganno più grosso».
Partendo dal passato: negli anni ’70 i cantautori erano visti come personaggi eccentrici, fuori dagli schemi che però allo stesso momento portavano alla luce verità, istanze politiche, diventando punti di riferimento generazionali, e riuscivano ad unire la parte intellettuale a quella popolare nei loro pezzi. Lei pensa che sia ancora così? I cantautori oggi hanno ancora questa valenza?
«Teoricamente sì. Il problema però è che non riesci più a raggiungere il popolo come prima perché sono cambiati i mezzi, la distribuzione. Il popolo a cui arrivano i cantautori, ammesso che sia sufficientemente reattivo e non troppo rincoglionito da tutto quello che lo circonda, rimane tuttavia un popolo di nicchia. Il cantautore oggi, in virtù di questo recupero degli anni ’70 che c’è stato con Brunori – il quinquennio brunoriano che però adesso è giunto al termine – deve adesso discostarsi un po’ da quelle sonorità anni ’70. A me dispiace, perché mi piacciono moltissimo! Comunque adesso per arrivare a una buona fetta di pubblico il cantautore deve sperimentare delle sonorità più pop, ma ciò non vuol dire che si debba rinunciare a dei contenuti e al valore letterario. Non bisogna più perdersi nella retorica del bel testo, perché non basta».
Un altro bellissimo pezzo è Verme solitario antropomorfo. Si sente tanto Lucio Dalla. Questo artista è stato un suo punto di riferimento?
«Sì sicuramente, mi sono ispirato anche a Dalla».
Il pezzo Mauro si riferisce ad una persona specifica della sua vita?
«Sì, è un mio caro amico: Mauro Zoccali. Ha un agriturismo a Zanego, vicino a Monte Marcello, dove Marcello sconfisse i liguri apuani, un agriturismo dove si mangia molto bene, si chiama Agriturismo Gallerani. Il numero è… (ride, nda)».
Ha finito la pre-produzione del suo nuovo disco per Phonarchia Dischi a cura di Nicola Baronti. Come si sente cambiato dal lavoro precedente? Cosa ha esplorato musicalmente?
«Diciamo che ho un po’ risposto prima, dicendo che bisogna togliersi gli abiti anni ’70 per indossare quelli più anni ’80. Nel lavoro che abbiamo fatto non abbiamo potuto lasciare da parte certe novità musicali; in questa produzione stiamo attingendo molto sia dall’elettronica, sia da ascolti più internazionali che vanno dalla black music ai Pink Floyd dei primi anni ’70, passando per il Battiato anni ’80. Ci siamo spostati di qualche anno, ora siamo nel 1982! In questo lavoro non si può ignorare ovviamente l’ultimo disco di Io sono un cane, che secondo me col tempo diventerà un esempio di come si possono recuperare delle sonorità anche anni ’70, anche battistiane, ma sicuramente contaminate da elettronica e prog».
A parte Stoner di Portorotondo che live ha una carica incredibile… Quanto la sua vita da marinaio ha influenzato le sue canzoni? Ci sono altri riferimenti meno evidenti in altri pezzi?
«Alcune canzoni le ho scritte in barca anche se non riguardano la barca. Esca per le acciughe, Mauro, Borghesia napoletana sono pezzi che ho scritto quando ero imbarcato. Ogni imbarco ovviamente è diverso a seconda dell’armatore con cui sei, a volte può essere molto faticoso e pesante o avventuroso, dipende. Io ebbi un imbarco molto pesante qualche anno fa: il lavoro iniziò a diventare anche sofferenza… Lì tirai fuori quella vena blues che ti costringe a sublimare il malessere in qualcosa di bello e condivisibile. Molte canzoni sono nate così. Altre canzoni invece sono nate da imbarchi più fortunati e sono venute fuori dalla contemplazione dell’infinito. Quando sei davanti a una superficie – quella del mare – che ti proietta verso un orizzonte che non ha più ostacoli, le tue idee non hanno più ostacoli, la tua mente è una tavolozza. Scrivere in mare è molto utile».
La necessità che lei ha di scrivere è un modo per esorcizzare dei momenti negativi?
«Sì, soprattutto è questo. Per adesso ogni canzone è nata dall’esigenza di esorcizzare qualcosa di indigesto, non per forza brutto. Spero col tempo di poter scrivere partendo da cose più leggere e digeribili, altrimenti mi viene una gastrite!».
Virginia Villo Monteverdi
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