Uno degli appuntamenti più interessanti del Pisa Book Festival, in programma da domani a domenica al Palazzo dei Congressi di Pisa, è la presentazione del volume edito da Mds Editore, «Gabbie». Si tratta di un’antologia di racconti curata da Michele Bulzomì, Antonia Casini e Giovanni Vannozzi, e con contributi molto importanti, come quello di Stefano Benni. La pubblicazione del libro è stata una logica conseguenza della mostra che Bulzomì, giovane giornalista e artista, ha presentato al pubblico nel mese di ottobre negli spazi espositivi di San Michele degli Scalzi.
Michele, com’è nata l’idea della mostra?
«È stato l’editore a pensarlo. Sara Ferraioli, presidente di Mds Editore, ha visto i primi bozzetti e ne è rimasta talmente soddisfatta da propormi un’esposizione personale al centro Sms».
Come hai ideato il titolo?
«Non è merito mio, ma della casa editrice. Dall’esperienza di «Favolare», progetto che ha reso protagonisti i detenuti del carcere Don Bosco, ci è rimasta impressa un’immagine in particolare: le sbarre che si chiudevano dietro di noi. Una fotografia impressa nella nostra mente, che abbiamo voluto raccontare».
E quindi il libro, che presenterete al Pisa Book Festival con il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. Di cosa parla?
«L’antologia è stata pensata per esprimere, tramite le parole e le immagini, la costrizione fisica e mentale. Il carcere è un limite, certo, ma non è il solo. Il libro racconta molte altre barriere che connotano il genere umano».
Parlaci delle tue esperienze di lavori con i detenuti, da cui proviene anche «Favolare». Cosa hai dato e cosa hai ricevuto?
«Ho tentato di trasmettere ai miei studenti il senso della creatività e la capacità di esprimere la propria interiorità. A loro volta, mi hanno donato le chiavi per aprire una delle gabbie più difficili da spalancare, quella del pregiudizio, dalla quale ormai sono libero».
Cosa c’è che non va, oggi, nel sistema di detenzione italiano?
«L’apparato nel suo complesso. La nostra Costituzione parla della pena detentiva solamente con finalità rieducativa e non come mera privazione della libertà personale. Purtroppo, in molte realtà, i detenuti sono abbandonati al loro destino e non sono sostenuti da programmi di riabilitazione sociale».
Che tecnica hai usato per i disegni?
«Ho utilizzato della china stesa con un pennello come se fosse un acquerello. Ho poi rifinito i contorni con una semplice penna a sfera. Volevo rendere l’idea del bianco e nero artisticamente e letteralmente: ancora oggi il tema carcerario divide in due poli opposti le opinioni della comunità».
Quali gabbie ci sono oggi nella nostra vita di tutti i giorni?
«Credo che gli stereotipi siano le sbarre che maggiormente limitano la nostra quotidianità. Siamo un po’ tutti liberi e prigionieri di una gabbia che abbiamo eretto intorno a noi. Spesso dimentichiamo dove abbiamo nascosto la chiave: spetta solo a noi capire come aprirla».
Quando hai iniziato a disegnare?
«Avevo cinque anni e visitavo Firenze insieme a mio padre. Notai un artista dipingere il lungarno e i passanti, ne rimasi affascinato. Incrociai lo sguardo di mio padre e dissi: ‘Da grande voglio diventare come lui’. Mio babbo rimase perplesso, ma io ne ero convinto. Chissà se davvero ci sono riuscito».
Francesco Bondielli
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