Barry Lyndon all’Arsenale

Barry Lyndon (Barry Lyndon, Stanley Kubrick, 1975)

Per la rassegna de “Il cinema ritrovato”, il Cinema Arsenale di Pisa, a Gennaio 2015, presenterà la versione restaurata di Barry Lyndon, il classico di Stanley Kubrick datato 1975.

Che cos’è Barry Lyndon se non il più grande saggio di storia dell’arte sul Settecento mai visto al cinema? Nei quarant’anni che ci dividono da quel lontano 1975 ne abbiamo lette di tutti i colori su questo lavoro di Kubrick: critiche positive, negative, sopravvalutato, sottovalutato, formalista, fine a se stesso e via dicendo. Le opere prettamente visive e visionarie lasciano spazio a infiniti dibattiti, riletture, rivalutazioni o ripensamenti. Il caso Barry Lyndon non fa eccezione e per affrontare il commento a un monumento della cinematografia mondiale cercherò di aiutarmi con l’analisi di un’altra pellicola similare, anche se costata dieci volte meno: I duellanti (The Duellists, Ridley Scott, 1977).

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Ma procediamo con ordine. Dopo l’accoglienza non proprio entusiastica in alcuni paesi di Arancia meccanica (Clockwork Orange, Stanley Kubrick, 1971), Kubrick si isola in Inghilterra, dove si trova in lotta con il mondo, non si fida di nessuno (Sanguineti), per pensare e scrivere un nuovo film. Kubrick parte dal libro “Le memorie di Barry Lyndon” di William Thackeray, romanzo ottocentesco ambientato nel Settecento, per dare vita a una vicenda centrata su un’epoca storica distante più di due secoli, per ricreare la cultura visiva settecentesca attraverso una traduzione che si fa conduzione, appropriazione, verità personale, libertà segreta (Reggiani). Quest’appropriazione che Kubrick compie sul romanzo è la medesima che gli permette di lavorare con le scene come se fossero dipinti del ‘700: Hogarth, Gainsborough, Constable, Stubbs, Devis, Zoffany, Reynolds, Chardin, La Tour, Longhi, sono i pittori citati. L’occhio dell’appassionato di storia dell’arte non solo si accorgerà di scelte visive vicino al gusto dell’epoca raccontata, ma vedrà realizzarsi di fronte ai propri occhi dei veri e propri tableaux vivants, costruiti per ricalcare quadri famosi con gli attori, i paesaggi, le stanze, la mobilia e il dettaglio ricercato. Kubrick trasforma Ryan O’Neil, Marisa Berenson, Patrick Magee, Hardy Kruger e tutti gli altri attori in pedine di cera da inserire in tale contesto.

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L’uso di luci naturali o luci proveniente da candela, unito all’avveniristico utilizzo di lenti e obiettivi Zeiss, comportò una direzione degli attori molto più lenta e cadenzata per evitare sfocature o passaggi poco chiari. L’utilizzo di luce naturale fu spiegata, in diverse interviste, da Kubrick e dal direttore della fotografia John Alcott. Kubrick disse: “è così che vediamo le cose. Ho sempre cercato d’illuminare i miei film in modo da simulare la luce naturale, usando di giorno le finestre per illuminare realmente il set, e nelle scene notturne usando quelle fonti luminose che si vedono nella scena stessa”; mentre Alcott andò più nello specifico sostenendo che “abbiamo girato essenzialmente d’inverno e potevamo girare solo tra le nove del mattino e le tre del pomeriggio. Quando avevamo il sole, lo utilizzavo come luce naturale. Ho messo della carta nera sulle finestre e ho installato delle lampade affinché al calar del sole si potesse passare alla luce artificiale e continuare a girare. Ma questa illuminazione… era basata sulla luce naturale”. Sulle tecniche di ripresa e illuminazione intervenne anche la costumista – vincitrice del premio Oscar – Milena Canonero, osservando che “nelle scene a lume di candela, ho dovuto eliminare il bianco-bianco che rischiava di diventare troppo luminoso: sparava, come si dice. Kubrick usava un obiettivo estremamente luminoso, un obiettivo speciale fornito dalla Nasa, che vedeva più dell’occhio umano e che solo lui ha usato. Talvolta anche in esterni bisognava stare attenti al bianco e ai colori più chiari, perché il tipo di fotografia usato da Stanley Kubrick era molto particolare”.

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Il risultato di questa operazione fotografica-artistica è sotto gli occhi di tutti ed è, a mio parere, il vero punto forte del film. Solo un regista visionario che sette anni prima era andato nello spazio poteva costruire una macchina del tempo visiva per catapultarci nel pieno Settecento. Se I duellanti di Scott offriva allo spettatore uno squarcio delle guerre napoleoniche attraverso mezza Europa, quello che risaltava era tuttavia un microcosmo di sentimenti vissuto tra due persone, personalità, caratteri. Scott usa i primissimi anni dell’Ottocento per raccontare – tramite il racconto di Conrad – un duello, al contrario Kubrick usa delle situazioni per raccontare un intero contesto storico, stili di guerra e stili di vita, pratiche di relax e dinamiche familiari. Un microcosmo personale che si trasforma, in divenire, in macrocosmo sociale e storico.

Il restauro che verrà proiettato nella sala dell’Arsenale offrirà una ghiotta occasione per rivedere su uno schermo cinematografico la scalata e la discesa di un uomo chiamato Redmond Barry, ovvero Barry Lyndon.

Tomas Ticciati

Tomas Ticciati
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