Quando i cuccioli abbaiarono forte

1977: le infinite facce del movimento

 

L’anno 1977.

Se ne può parlare, come no?

Ma chi ne parla in termini generali non lo ha vissuto. Non è un’affermazione temeraria. Al contrario: è storia.

Ci sono stati tanti ’77, molti di più di quanti non fosse possibile esperirne in tempo reale. C’è stata quella sorta di disgregazione del senso e dei sensi che ha avuto in Bologna il suo epicentro; c’è stata quell’incredibile accelerazione, quell’innalzamento esponenziale delle modalità di lotta, di contrasto al potere costituito nella vita quotidiana vita fondata sui consumi, che ha visto il quartiere San Lorenzo di Roma in prima fila; c’è stata la prosecuzione dell’antagonismo giovanile e proletario così come si era visto sempre, solo che costellato di episodi tragici e acuti, come in troppe città italiane. C’è stato un gioco di reciproca seduzione fra ribellione e lotta armata, fra ribellione e annichilimento individuale in qualche abuso di sostanze. E questo, ahinoi, è successo ovunque, come ciascuno di noi sa fin troppo bene.

 

Tuttavia fin qui restiamo nell’analisi della fenomenologia del 1977: Radio Alice e A/Traverso, l’autoriduzione e l’esproprio proletario sistematico, al bar come nella bolletta ENEL, gli indiani metropolitani e le radio libere, gli slogan-sberleffo, parodia della tradizione stessa della vecchia militanza percepita ormai come liturgia di se stessa, spirito di servizio ruolizzato e inefficace. «Gastronomia operaia, cannibalizzazione; forchetta, coltello, mangiamoci il padrone», per dire il primo che mi viene a mente. Ranx Xerox e un’orda di fumetti totalmente irriducibili al vecchio “senso comune”. Le tentazioni punk con improbabili cantanti rochi e arrabbiatissimi, imitazione in stile “la rivolta de noantri” dei rigurgiti dirompenti del sottoproletariato giovanile della swinging London; “Live fast, die young”. Qualcuno è morto giovane davvero; altri si arrabattano tutt’oggi, non so se vivendo “veloci”, come appunto esigeva lo slogan-fondante della “Oi-Oi music” (virgolettato due righe sopra), o prendendosi il loro tempo, ora che, essendo miei coetanei, sono degli attempati signorotti di mezza età. Ma fin qui restiamo appunto nella fenomenologia, e si sa che tutte le generazioni hanno avuto un loro specifico “quid” di forme e contenuti.

 

Tuttavia, per quanto bislacche possano apparirmi oggi le modalità della comunicazione giovanile contemporanea, queste sono comunque alla mia portata. Per mio padre, timorato ed autoritario impiegato politicamente disimpegnato e centrista, oltre che gran lavoratore e scrupoloso pianificatore delle finanze di famiglia, un episodio di Ranx Xerox o un numero di A/Traverso o un articolo di Bifo erano semplicemente incomprensibili. Arabo. La musica che ascoltavo era una cacofonia intollerabile; il “look” inguardabile e ingiurioso. La soluzione della continuità generazionale andò in scena in quegli anni lì.

 

E poi c’è il 77 delle relazioni interpersonali.

La crisi della coppia, l’attacco alla famiglia, «scordarsi dei binari verso casa» come disse De André, che essendo però sempre e comunque avanti (e sempre e comunque «in direzione ostinata e contraria») scrisse questa frase nel 1974; l’esaltazione del discontinuo, il mito dell’instabilità, l’overdose autopunitiva dell’adesione acritica e dolorosissima ai dogmi dell’ideologia condivisa.

Ma l’ideologia non è un’idea, bensì la sua “sistematizzazione”, e da questo punto di vista ha fatto più danni «Noi e il nostro corpo» o il divieto di essere gelosi/e o possessivi/e di tutte le repressioni fascistoidi e poliziesche.

Perché sì: il 1977 non lo si può chiudere in definizioni unificanti, è vero; ma la risposta dello Stato, quella sì che fu univoca. Ed è possibile definirla con termini precisi. Repressione. Delegittimazione. Carri Leopard in Piazza. Cariche. Sigilli alle radio libere. Botte da orbi. Tendenza a scivolare col colpo in canna ai posti di blocco. Ragazzi morti ammazzati. Agenti infiltrati come guastatori armati. Teoremi giudiziari da regime greco dei Colonnelli; sistematiche accuse di essere “il  terreno di coltura del terrorismo”. Avevi un bel prenderla a ridere gridando tutti quanti insieme: “Siamo belli, siamo tanti, siamo i covi saltellanti” nei cortei; resta il fatto che le galere si inghiottivano decine e decine di compagni che semplicemente provavano ad avere una visione irriducibilmente diversa della vita e della collettività. Il prezzo pagato fu altissimo e nessuna riflessione conclusiva è stata ancora fatta su questo aspetto di quegli anni. Ci sono molti rilessi e nessuna grande riflessione.

Che resta, dunque?

Dipende. Mille risposte diverse da ciascuno dei potenziali interpellati.

A me resta, ed è ricordo da pelle d’oca, qualche rivordo bolognese di piazze stipate all’inverosimile di giovani uomini e donne che non facevano niente di particolare, se non vivere, amare, divertirsi, battersi a modo loro. E la determinazione assoluta nei volti semi-nascosti dei compagni e delle compagne ingaggiate in scontri. Con le forze dell’ordine, coi fascisti…

Perché se c’è uno specifico del 1977 è che furono i cuccioli a fare la voce grossa.

Non il fresco reduce del ’68, allora a malapena trentenne; non l’intellettuale futuro parlamentare PSI o esule a Parigi o carcerato in Italia; nemmeno l’operaio, perchè non ce la faceva proprio a capire quella figlia scapestrata o quel figlio dagli occhi eternamente arrossati e dagli orari che erano un insulto per lui turnista metalmeccanico sindacalizzato. Diciottenni sciocchi come tutti i diciottenni di ogni epoca, ma capaci di chiedersi: ma perchè così? Ma quanto poco ci interessa questa modalità esistenziale, questa dinamica malata nelle relazioni uomo-donna, questo mondo dove per ognuno che muore di fame c’è un altro che muore di colesterolo? Certo: non dicevamo questo, non comunque con queste parole, ma questa era l’energia di fondo che circolava. E ne circolava tanta, perchè 100 cuccioli incazzati ne liberano di più della somma di 100 singole incazzature. Molta di più.

E le canzoni.

Ricordo bene le canzoni. Non solo quelle che sono diventate icone del movimento, come gli Zingari Felici ed altre, ma roba di nicchia. Assemblea Musicale Teatrale, il primo Ricky Gianco e alcuni autori e autrici del tutto sconosciuti alla ribalta che conta. «Ci credi? Mi ha chiesto di andare al Gran Ballo, come Cenerentola. Forse dopo faremo l’amore ed io sarò più donna».

Non so perché, ma per me non c’era un modo migliore per parlare di vecchio e nuovo amore. Niente oltre quei versi di una canzone completamente sconosciuta che chiudeva con queste parole:

«Vorrei che questo impassibile mondo non ci dividesse».

In realtà il testo diceva «Impossibile mondo», non «Impassibile», ma per qualche strana ragione a me è sempre sembrata migliore la seconda opzione. Ecco cos’era il 77, alla fine: una poesia collettiva, confusa, potente, sgraziata, elegantissima e misconosciuta che ognuno poteva liberamente adattare alla sua personalissima dimensione.

Ma il mondo, si sa, era ed è tuttora impassibile.

Baccoinfesta

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