I serial killer, quando la dipendenza è l’omicidio

«[…]già la notte seguente ritornò a fare scempio/peggiore, e non rimpianse la sua faida e i suoi crimini;/c’era troppo legato». Questi versi, tratti dal grande poema Beowulf, tratteggiano con la stessa rozzezza e la stessa forza di una scultura intagliata nel legno il personaggio di Grendel, e forse l’anonimo autore del più importante testo della letteratura anglosassone ha voluto delineare anche la caratteristica peculiare di una figura che sarebbe stata individuata solo molti secoli più tardi: il serial killer.

Un agente rinviene il corpo di una vittima di Jack lo Squartatore, illustrazione del 1888.

I primi cenni sugli assassini seriali si sono avuti solamente a partire dagli anni ’50 del XX secolo (ad esempio, grazie al criminologo James Reinahrdt e all’autore John Brophy), tuttavia per degli studi accurati incentrati sull’odierna concezione di serial killer bisognerà attendere gli anni ’80, grazie in particolar modo alla pionieristica attività dei periti dell’FBI. La stessa locuzione «serial killer» è di nascita piuttosto recente, difatti è stata coniata tra gli anni ’70 e gli anni ’80 dal famoso criminal profiler Robert Ressler.
Ma… chi sono esattamente i serial killer? Quella che può apparire come una domanda semplice e concisa, in realtà va ad aprire uno dei più controversi vasi di Pandora legati all’universo criminologico: la definizione di serial killer è tutt’oggi oggetto di forte discussione, una discussione che sembra tutt’altro che archiviata dato che uno dei più aggiornati testi in merito, l’ottimo I Serial Killer di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca, riporta poco meno di una decina di diverse definizioni, tra le quali «non c’è molta omogeneità». Senza voler entrare nel merito di una questione evidentemente molto complessa, una delle risposte più attendibili alla domanda di cui sopra è forse la definizione di omicidio seriale adottata dal National Institute of Justice degli Stati Uniti riportata nello stravagante ma preciso Serial Killer, un saggio elaborato in forma di dizionario scritto da Harold Schechter e David Everitt: «Una serie di due o più omicidi, commessi come eventi separati, solitamente ma non sempre da un autore che agisce da solo. I delitti possono avvenire in un periodo di tempo che va da ore ad anni. Molto spesso il movente è psicologico, e il comportamento del trasgressore e le prove materiali raccolte sulla scena del crimine rivelano implicazioni di natura sado-sessuale».

Il serial killer Ted Bundy

Ciò che fanno i serial killer lo sanno tutti, il cinema e la narrativa hanno solleticato più volte la nostra immaginazione con la danza macabra delle inenarrabili gesta degli assassini seriali (ad esempio con Il Silenzio degli Innocenti, probabilmente il film definitivo sui serial killer) e la definizione sopra proposta inizia a gettare luce sulle motivazioni che spingono questa particolare categoria di criminali ad agire in modo tanto particolare e si può ben dire caratteristico. In altri termini: i serial killer hanno assunto questo nome perché compiono una serie di omicidi, tuttavia non esiste nessun collegamento tra le vittime dei singoli momenti omicidiari (in cui si causa la morte di uno o più soggetti). Il movente è solitamente psicologico – questo lo si apprende anche in un paio di puntate di CSI – tuttavia in questo macabro gioco la psiche riveste un ruolo molto più profondo e importante di quanto si possa immaginare perché, volendo usare una comoda metafora, per questi soggetti uccidere crea dipendenza. Naturalmente non si tratta di una dipendenza “fisica” come può essere una dipendenza da una sostanza stupefacente, ma a livello psicologico va ad innestarsi un tremendo meccanismo che conduce l’assassino seriale in un circolo vizioso da cui non riuscirà più a districarsi.
Una buona “prova indiziaria” di questa considerazione può essere il caso di William Heirens, noto anche come The Lipstick Killer (“il killer del rossetto”), che su una parete dell’appartamento di una sua vittima scrisse con il rossetto un eloquente messaggio rivolto alle forze dell’ordine: «Per l’amor di Dio/fermatemi prima che uccida ancora/non posso controllarmi». Emblematico di questa atroce dipendenza anche il caso di Ted Bundy, il più celebre trai serial killer statunitensi: dopo una spettacolare fuga dalla Garfield County Jail in Colorado, dov’era detenuto in attesa di essere processato per numerosi omicidi, riuscì a raggiungere la Florida, creare una falsa identità e scomparire dal radar della legge, che aveva mobilitato un imponente spiegamento di forze per catturarlo… senonché dopo circa due mesi di permanenza in Florida uccise di nuovo. Una scelta che gli costerà la vita perché in seguito a quegli ultimi crimini Bundy verrà nuovamente arrestato, sottoposto a processo e condannato alla sedia elettrica.

Annuncio della cattura di Donato Bilancia, il più prolifico serial killer italiano.

Senza voler indugiare troppo a lungo in queste “prove indiziare”, è giunto il momento di vedere come la criminologia ha interpretato i fatti – quelli sopra elencati e molti altri – e ne ha tratto la sorprendente e agghiacciante conseguenza che ogni delitto, ogni omicidio rafforzi questa singolare dipendenza. In questo particolare caso ci vengono in soccorso gli studi dello psichiatra Joel Norris che nel suo fondamentale Serial Killers: The Growing Meance ha tracciato lo schema seguito tipicamente dai serial killer nel periodo attorno all’azione omicidiaria. Questo schema, oltre a chiarire l’enorme coinvolgimento psicologico che l’omicidio seriale causa nei suoi esecutori, mostra anche come il comportamento di questi sia scandito, secondo le parole di Carlo Lucarelli Massimo Picozzi, «da un andamento ciclico, secondo il succedersi di fasi ben distinte e fortemente intrecciate». Come già detto, una volta innescato questo meccanismo è virtualmente irreversibile e continua la propria azione distruttrice finché l’assassino seriale non è costretto a fermarsi, cosa che solitamente avviene a causa del decesso di questi o del suo arresto (anche per altri crimini non necessariamente collegati). Lo schema delineato da Norris si articola in sette fasi:
fase aurorale: il serial killer si ritira dalla vita sociale, elabora fantasie sempre più intense incentrate sull’omicidio;
fase di puntamento: è alla ricerca di una precisa vittima, studia accuratamente il terreno;
fase della seduzione: si approccia in modo seduttivo ma ingannevole alla vittima che quindi si dimostra meno cauta, preparazione all’aggressione;
fase della cattura: cattura della vittima e riti preparatori all’omicidio;
fase omicidiaria: concretizzazione delle fantasie della fase aurorale, l’omicidio avviene con modalità fortemente simboliche che trovano un forte legame con il vissuto dell’assassino;
fase totemica: l’omicida cerca di protrarre il più a lungo possibile il piacere derivato dall’omicidio, rielaborazione della fase omicidiaria attraverso feticci e trofei (fotografie, filmati, registrazioni, effetti personali della vittima, parti del cadavere);
fase depressiva: il ricordo dell’impresa precedente svanisce assieme all’onnipotenza assaporata nel corso del delitto, bisogno compulsivo di trovare una nuova vittima. 

Da notare quindi la perfetta circolarità di questo schema e la sua possibilità di proseguire virtualmente per sempre, a meno che non intervenga una forza a interromperla, una forza che deve essere necessariamente esterna perché a questo punto il serial killer ne è completamente succube e tutto ciò che può fare è perpetuarla, ciclo dopo ciclo dopo ciclo dopo ciclo.

Noi serial killer siamo i vostri figli, siamo i vostri mariti, siamo ovunque. E domani ci saranno altri morti, tra i vostri bambini.
Ted Bundy

lfmusica@yahoo.com

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