1977. Bianchi e neri vecchi e nuovi

Primo febbraio 1977: nasce ufficialmente la televisione a colori. Pochi tengono a mente questa data, ma pensandoci bene possiamo cogliere quanto, da quel momento, sia cambiata la nostra percezione di immagine.

In realtà l’Italia fu uno degli ultimi Paesi a trasmettere le immagini a colori: gli Stati Uniti avevano iniziato i primi esperimenti nel 1940, mentre Francia, Germania e Gran Bretagna cominciarono le trasmissioni regolari nel 1967.

Il nostro Paese dovette superare alcuni ostacoli più strettamente formali, dato che dal punto di vista tecnico la RAI era pronta a trasmettere già nel 1961 con l’inaugurazione di Rai Due. Innanzitutto, la lotta tra i due sistemi europei che si svilupparono maggiormente per garantire buone prestazioni per quel che riguarda la trasmissione dei colori: SECAM (quentiel couleur à mémoire, usato in Francia per la prima volta)  e PAL (Phase Alternating Line, nato in Germania e che alla fine fu scelto dall’Italia).

 

Inoltre il colore fu contrastato da Ugo La Malfa, senatore repubblicano convinto che i cittadini italiani in questo modo sarebbero stati dirottati verso il consumismo e l’inflazione. Insomma, dietro alla data “primo febbraio 1977” potremmo ritrovare un gran numero di piccoli traguardi che piano piano hanno reso possibile l’arrivo ufficiale del colore. In realtà il cambiamento non fu totale e rapido, ma lento e graduale: si pensi che inizialmente erano solo 42 le ore settimanale concesse alla televisione a colori e andavano divise tra Rai Uno e Rai Due. Non fu poi semplice abilitare al colore tutti gli studi di trasmissione, e infatti lo show L’amico della notte rimase in bianco e nero proprio perché il Teatro delle Vittorie non disponeva dei mezzi per le registrazioni a colori: il colore causò qualche difficoltà non solo per quanto riguardava le attrezzature, ma anche in altri campi che a prima vista potrebbero sembrare banali e che invece fecero parte della ricerca di assestamento di un nuovo modo di fare televisione. Proviamo a considerare le partite di calcio, tanto per citare un campo caro a molti di noi: alcune squadre dovettero lasciare i loro affezionati colori della divisa, come il Venezia che fu costretto a rinunciare al verde delle magliette perché non fosse confuso dai telespettatori con quello del terreno da gioco. Al contrario, invece, l’identificazione dei concorrenti in una gara di automobilismo era senza dubbio agevolata.  Insomma, il colore venne accolto ma non senza qualche difficoltà.

Comunque sia, se ripensiamo a quando la Rai faceva i suoi primi esperimenti mandando in onda serie di immagini statiche sulla musica di Chopin e a quando adesso accendiamo televisori ad alta definizione che trasmettono immagini dai colori così nitidi da raggiungere un certa sfumatura di finzione, a primo impatto potremmo pensare che il bianco e nero sia qualcosa di legato al passato. Ma così non è. Basti nominare Schindler’s List e a molti tornerà in mente il famoso cappotto rosso che spicca tra tonalità di bianchi e neri, constatando la profonda attualità del bianco e nero. Il film infatti è girato in bianco e nero, fatta eccezione per alcuni particolari: la bambina con il cappotto rosso, le candele che si spengono all’inizio e si riaccendono alla fine del film, la scena finale che ci riporta ai nostri giorni e che  è del tutto a colori. Che dire, poi, de L’Uomo che non c’era, capolavoro dei fratelli Coen uscito nel 2001? Come dimenticare quei grigi sbiaditi che non fanno altro che amplificare l’invisibilità e l’apatia del protagonista. Perché una cosa va sottolineata: parlare di bianco e nero in generale sarebbe banalizzare una buona parte della scelta registica. Possiamo avere bianchi e neri più netti e vivaci e altri, come nel caso de L’uomo che non c’era, più spenti e dove addirittura non possiamo parlare propriamente di neri e di bianchi, ma più di diverse tonalità di grigi.

La lista di esempi di “giovani” film che sfuggono al vortice di colori che circonda la società d’oggi potrebbe continuare a lungo, come The Artist o Nebraska. In quest’ultimo caso è lo stesso Alexander Payne a giustificare la sua scelta: «Ho sempre desiderato fare un film in bianco e nero: è un formato bellissimo. E questa storia sobria e rigorosa si presta a uno stile delle immagini semplice, spoglio e disadorno come la vita dei protagonisti del film».

E sta proprio qua il punto: il colore si deve adattare allo «stile delle immagini» o al carattere dei personaggi, divenendo quindi parte integrante della storia e dell’ambientazione e arrivando qualche volta a trasmettere allo spettatore un sentimento preciso.

Insomma, il primo febbraio del non troppo lontano 1977 possiamo dire che il colore abbia iniziato ufficialmente ad affiancare il bianco e nero. Tutt’altra cosa rispetto al sostituire.

 

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