Safia Tarzì: la stilista che non ti aspetti nel paese che non credevi

Negli anni ’60 la stilista afghana Safia Tarzì rappresentò il fiore all’occhiello della libera Kabul. Tanto innovativa da guadagnare un posto  nel numero di Dicembre del 1969 della nota rivista Vogue, dal titolo “Avventure Afghane”.

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Tarzì, nativa di quella terra, fu tra le più innovative e competenti nel suo campo e se poco si sa della sua vita le notizie sulla sua morte non sono da meno (probabilmente in un incidente in Mongolfiera), ma questo non fa che aumentare l’aura di affascinante mistero che l’avvolge. La donna aprì negli anni Sessanta il suo studio nella fiorente città di Kabul e presto divenne famosa grazie alla sua incredibile capacità nell’adattare l’innovazione alla tanto amata tradizione, creando un mix sbalorditivo. Caratteristica principale fu il tradizionale turbante, che assunse nelle sue collezioni il valore innovativo di esaltazione del volto femminile. La stessa stilista lo usava praticamente in ogni occasione e molteplici sono le fotografie che lo testimoniano.

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Oltremodo coraggioso fu l’abbinamento di quest’ultimo ad abiti tipicamente occidentali, giunti in città per mano della rivista Vogue grazie all’intercessione della Pan Am Airlines. I 200 modelli (pattern) convolarono nella scuola sartoriale di Jeanne Beecher, influente moglie di un dirigente della compagnia aerea Pan Am, attiva già dal 1960 .

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Il gusto femminile era cambiato e già nel 1961 più di un terzo delle donne portava minigonne colorate e occhialoni. Non riuscendo ad ignorare questo flusso culturale, Tarzì fece del colore un’altra caratteristica della sua linea.

Famoso è il vestito tipicamente maschile che la stilista riadattò al corpo femminile. Composto da due unità cromatiche distinte, la tradizionale giacca lunga si veste di un fantasia a rose su fondo oro che correndo anche sugli attillati stivali conclude il primo blocco cromatico. Il sotto giacca è diviso a sua volta in due parti: un top bianco in seta cangiante, e dei pantaloni a sbuffo dello stesso tessuto. Questi ultimi fermano la loro corsa al ginocchio lasciando intravedere la gamba. Tarzì non trascura niente ed ecco che il turbante è in perfetto accordo con top e pantaloni. La cintura alla vita è impreziosita da turchesi così come gli orecchini.

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È da tutta questa originalità che la truppe di Vogue fu chiamata nel 1969 quando decise di dedicare il numero di dicembre a questa nuova cultura che al tempo era ancora florida e ricca di innovazioni. È importante tenere presente che la nota rivista di New York è considerata, dal 1892, la Bibbia della moda e aveva trovato in quel paese un esempio di stile tanto da dedicarne una copertina. Oggi non potrebbe fare altrettanto perché è impossibile riconoscere stile e innovazione nell’abbigliamento delle donne di Kabul: la celebre foto di Safia Tarzì nel suo studio in abito corto nero è ben lontana dall’immaginario collettivo della donna afghana che abbiamo adesso.

fig.4 Safia Terzì nel suo studio 1969

fig.2 donne di Kabul oggiSe è vero che la cultura di un paese si calcola in base a come tratta le proprie donne, resta aperta la sfida di immaginare una Kabul diversa: quella della seta oro di Safia Tarzì, perché la guerra non cancelli dalla memoria collettiva un paese dalla grandezza culturale immensa. Quello che non sappiamo molte volte è nascosto dietro all’unica realtà che ci viene mostrata, come se un grosso tappeto dai colori sbiaditi coprisse un bellissimo pavimento di tessere colorate e noi ci fermassimo a guardare il tappeto. Questo è quello che succede tutti i giorni nei confronti di Kabul, ogni singola immagine è il gelo di una realtà spettrale che nell’immaginario collettivo ha sostituito la bellezza. Ciò ha impedito un reale confronto con il passato, fondamentale per capire e conoscere ogni civiltà. Sapere che le nonne di Kabul indossavano capi come quelli di Safia e che le loro nipoti oggi sono nascoste sotto la campana del burka, deve far capire che niente è sempre stato così, e dovrebbe stimolarci a cercare il “perché” delle cose, partendo da dove si vuole. E perché no, anche da un bel vestito.

Eleonora Greco

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