La libertà dello scrittore, tra indipendenza e self publishing

 

Sempre più spesso, navigando nel World Wide Web, è possibile e probabile imbattersi in saggi, romanzi, raccolte di poesie e racconti pubblicati senza il nome di una casa editrice tradizionale, o a pagamento, stampato sulla copertina. Di cosa si tratta?
Facile: è autopubblicazione e oggi più che mai questo tipo di editoria fa fronte ai libri pubblicati dalle vere e proprie case editrici.

Dunque, che cosa è il self publishing? È la pubblicazione che non passa attraverso una casa editrice, una pubblicazione diversa sia dall’edizione standard, le cui spese gravano interamente sull’editore, sia dall’edizione a pagamento, e cioè l’edizione a spese, intere o in parte, dell’autore.
In entrambi i casi la figura dell’editore è presente, differenza non di poco conto dall’autopubblicazione: in questo caso l’autore «si incarica di seguire tutte le fasi della realizzazione dell’opera».

Da quando il selfpublishing ha visto il successo, questo è stato accompagnato dalla nascita di società, piattaforme e iniziative che propongono servizi per l’autoedizione: StreetLib, Ilmiolibro, Youcanprint e Lulu.com sono alcuni dei più famosi siti per gli autori che scelgono la via dell’autoedizione.

Messa in chiaro l’entità dell’autopubblicazione, il dibattito in rete è aperto e in fiamme: accusando questo tipo di editoria, c’è chi argomenta il proprio punto di vista dicendo che, chi sfrutta il self-publishing, è solo qualcuno che ha avuto fretta di pubblicare e che vuole monetizzare le proprie parole, anche grazie alla facilità con cui è diventato possibile vendere il proprio libro.
«Il self è il contentino di chi sa di non avere possibilità con un editore» è possibile leggere su Facebook, in discussioni dedicate alla scrittura, «l’autore che si autopubblica si dà il cinque da solo».

Di base questo comporterebbe sostanzialmente «un abbassamento della qualità delle opere in circolazione» anche a causa di errori che un editore non permetterebbe mai di rendere pubblici in un libro in vendita; in pratica una scorciatoia per essere scrittore, più specificatamente una scorciatoia verso «l’illusione di diventare scrittore».

Allora bisognerebbe domandarsi: ma lo scrittore, per essere tale, deve dipendere per forza da una casa editrice?

Wikipedia ci dà un indizio: «Uno scrittore» leggiamo «è chiunque crei un lavoro scritto, sebbene la parola designi usualmente coloro che scrivono per professione».
Ed ecco allora che si schiera la difesa dell’autore autopubblicato, accusando l’editoria tradizionale di non essere più venditrice sana, anche lei vittima di una «corsa al guadagno» amante del soldo e non del talento.
Facile quindi anche arrivare a pensare che l’autopubblicazione combatta una lotta contro la tendenza delle case editrici di pubblicare romanzi di webstars, youtubers e altri fenomeni del web di dubbio talento, ma di ampio seguito.

È anche vero che pubblicare in “self” non preclude in alcun modo, eccetto rari casi, di pubblicare con un editore importante, un editore vero e proprio; anzi, spesso l’autoedizione può essere anche un modo per farsi notare da questi, con scout sparsi in rete; esempi ne sono tanti autori, anche italiani, come Anna Premoli con Ti prego lasciati odiare.

La discussione nei forum e sui blog cade nel vuoto: c’è chi apprezza ed è a favore, c’è chi disprezza e non è a favore; la parola va al lettore italiano: facendo shopping online è tanto facile imbattersi in libri autopubblicati quanto scartarli dalle proprie spese; si nega così la nascita di una passione sbagliata, o la nascita di un talento?

Elisa Berrugi
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