Le tette di Aida

Articolo semiserio sull’esecuzione filologica

C’è una domanda che non mi dà tregua: qualcuno ha mai preso la misura delle tette di Aida? Non di Aida Yespica (le sue le conosciamo tutti molto bene), ma di quella di Verdi. La domanda è legittima perché da quando Muti ha diretto l’Aida a Salisburgo il 6 agosto l’unico commento che il pubblico sembra in grado di esprimere è il seguente: «È piatta».

Dato che è impossibile che il profondo giudizio estetico si riferisca ad Anna Netrebko, che appunto interpreta la protagonista Aida, l’unica alternativa è che il bersaglio siano le scelte musicali di Riccardo Muti. È lui il colpevole, vostro onore, e merita d’essere esposto al pubblico ludibrio: come caspita gli è venuto in mente di eseguire l’Aida proprio come l’aveva scritta Verdi? È una cosa di così cattivo gusto, mentre è molto più corretto e dignitoso continuare con la solita Aida  di tradizione, dove non gliene può fregar di meno a nessuno se si inventano cose completamente a caso che per di più vanno totalmente contro l’intenzione del compositore (il che equivale – più o meno – a prendere Verdi e stuprarlo con una bresaola).

A essere onesti fino in fondo, non è solo colpa del pubblico se questa esecuzione ha destato numerosissime perplessità. Mi spiego meglio: il pubblico è sia colpevole sia vittima. È colpevole perché il 79% degli spettatori è composto dall’equivalente antropologico di muli sardi che hanno piantato da circa centovent’anni le zampe nel liquamoso terreno del «si è sempre fatto così» o «ma a me piace così», è vittima perché sono centovent’anni che direttori d’orchestra e cantanti (fatte salve poche e rare eccezioni) continuano a ingrassare le orecchie del pubblico con orrende storpiature della musica di Verdi, quindi pochissimi hanno un’idea di come certe cose dovrebbero essere eseguite e quindi è chiaro che passare dalle versioni tradizionali, dove i personaggi e persino le scenografie sprizzano da tutti i pori un eroismo da Istituto Luce, a quella originale costituisce uno shock. È uno shock perché dove ci si aspetta un acuto da spedire le tonsille di Radamés sul violinista più vicino alla fine ci si ritrova un “pianissimo” quasi esalato. Per questo è sì colpa del pubblico, sempre più passivo all’ascolto e sempre più arrogante dello sputare sentenze, ma bisogna anche riconoscere che esiste un cospicuo problema di fondo. 

Naturalmente non si sta parlando di una specifica esecuzione (anche se per questo articolo ho preso come riferimento questa) o di un’analisi tecnica sulla prestazione di questo o quel cantante, quindi è inutile che ve ne usciate con: «Meli non mi piace, preferisco Corelli». Il punto è semplicemente la scelta dell’interpretazione, che è assolutamente ineccepibile. Perché? Perché rispetta quello che ha scritto Verdi. 
Come facciamo a sapere che Verdi era così legato a ciò che ha indicato in partitura? Molto semplice: l’ha scritto. 
Lettera datata 14 dicembre 1850, indirizzata al segretario del teatro della Fenice di Venezia Marzari: «Le mie note, belle o brutte che sieno, non le scrivo a caso, e che procuro sempre di darne un carattere». 
Lettera datata 11 aprile 1871, indirizzata a Giulio Ricordi: «Sulla divinazione dei direttori… e sulla creazione ad ogni rappresentazione… […] È la strada che condusse al barocco e al falso l’arte musicale alla fine del secolo passato e nei primi an­ni di questo, quando i cantanti si permettevano di creare […] le loro par­ti, e farvi in conseguenza ogni sor­ta di pasticci e controsensi. No! Io voglio un solo creatore, e m’accon­tento che si eseguisca semplice­mente ed esattamente quello che è scritto. […] Io non ammetto né ai cantanti né ai direttori la fa­coltà di creare!».

Se uno non è caduto dal seggiolone da piccolo, è perfettamente in grado di intendere il senso di quel che dice Verdi (sì tenori, anche voi). Aida è una sua composizione e su quel che ha composto ha diritto di vita e di morte; le parole di Verdi e le sue note – esattamente come sono scritte – sono la Bibbia e nessuno può avere voce in capitolo. Esiste l’interpretazione, certo, altrimenti si farebbe una sola Aida per tutta l’eternità, ma l’interpretazione non può e non deve stravolgere quanto scritto. Anche perché di solito quando cantanti e direttori tentano di “abbellire” la partitura finiscono matematicamente con il rovinarla. Dato che prima si è parlato di Radamés, vediamo un esempio concreto che tutti voi conoscete: Celeste Aida. Aria meravigliosa, di solito le si riserva lo stesso trattamento colla bresaola di cui s’accennava sopra. Partiamo dall’inizio:

Archi con sordina (per di più divisi, quindi il volume sonoro è ancor più rarefatto) e un flauto in “piano”, un fagotto addirittura “pianissimo” (ppp) e dolce. Anche le indicazioni per la voce sono identiche. Non è un’aria da battaglia, eroica, ma una riflessione amorosa, quasi mormorata tra sé e sé. Ecco quindi che diventa inconcepibile il tenore medio che che se esce con «Ceeeleeste aiiiIIIIIIIIIIIIIDAAAAA!», che non solo non c’incastra un tubo con il contesto dell’azione ma è pure atroce, è qualcosa che si avvicina splendidamente al muggito di un bovino maremmano. E dato che questo andamento si ripete parecchio nel corso dell’aria, la cosa diventa molto snervante. 

Ma la ciliegina su questa amabile torta di chianina (sì, lo sappiamo tutti che tipo di torta è: assomiglia alla Sacher ma il gusto è leggermente più amarognolo) è il finale, dove finalmente il tenore può esibirsi in un poderoso barrito al suon di «Vicino al sol». Basta uno sguardo alle precise e inequivocabili indicazioni di Verdi sullo spartito per capire quanto l’esecuzione tradizionale sia totalmente fuori dal seminato:

Tre diversi “pianissimo” prima con quattro, poi con tre poi con due “p” e, sul si bemolle conclusivo, “morendo”. Sono termini abbastanza univoci, che non dovrebbero lasciare spazio all’immaginazione, ma il condizionale è d’obbligo perché la realtà dei fatti – a quanto pare – smentisce anche le più elementari definizioni del dizionario Treccani. 
Naturalmente si può eseguire il passaggio in vari modi, non è strettamente necessario che sia eseguito come si vede. Corelli lo faceva in modo molto intelligente. per evitare di emettere un acuto “sfiatato” (gli acuti in “piano” sono molto difficili, lì si vede la vera bravura del cantante, non se urla come un deficiente) arrivava sul si bemolle in “forte”, per poi smorzare immediatamente e dico che è una scelta molto intelligente perché:
a) rispetta il senso voluto da Verdi; 
b) evita di arrivare traballando sull’acuto; 
c) crea un effetto molto suggestivo perché il pubblico non se l’aspetta e rimane spiazzato.

Alla luce di quanto detto, se qualcuno ha ancora qualcosa da obiettare lo invito caldamente a non prendersela con il signor Muti ma direttamente con Verdi e di persona. Nel caso, la redazione vi fornirà mezzi adeguati per raggiungere il compositore.

lfmusica@yahoo.com

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