Emanuela Geraci intervista Denise Ciampi, autrice del libro L’amore di Greta per i pappagalli (Stampa Alternativa)
Nel suo romanzo appena uscito per Stampa Alternativa L’amore di Greta per i pappagalli vi sono tante storie e “strati” diversi: è la storia del “venire al mondo” di una donna che riesce ad aprire la propria gabbia e spiccare il volo. È altresì la storia dell’elaborazione di un trauma ed una piccola storia contemporanea dell’estasi. Mi ha sempre affascinato il legame tra trauma ed estasi, trauma inteso come quello che accade nelle nostre vite che eccede la nostra capacità di contenerlo o comprenderlo, penso poi all’estasi nella definizione di Dante come Excessus mentis. Cosa li accomuna secondo lei?
«La storia di Greta è segnata da un trauma familiare. Un evento che, oltre al dolore, ha generato nella bambina sensi di colpa legati all’impossibilità di spiegarsi razionalmente l’accaduto. Il contesto nel quale Greta si trova a fare i conti con il proprio trauma è un contesto chiuso nel quale coesistono, amplificati dall’isolamento, gli stimoli che riceve dall’educazione austera e severamente religiosa della nonna e quelli, contrapposti, provenienti dai libri ereditati dalla madre, che rappresentano la vivacità culturale degli anni settanta.
Dotata di una forte capacità immaginativa, nel suo percorso Greta si confronta con l’estasi delle sante martiri, introiettandone la mortificazione della carne e le spinte anoressiche; allo stesso tempo la sua immaginazione, che fin dalla prima infanzia è stata nutrita dalle fiabe della madre, è plasmata dalla letteratura. L’idea centrale è che la capacità di “vedere” oltre l’orizzonte consueto, contenga uno straordinario potere conoscitivo. L’estasi di Greta rappresenta una via per l’elaborazione del trauma, che porta la protagonista a spogliarsi gradualmente di una realtà asfittica per apprendere un modo di essere completamente nuovo, che passa attraverso la mobilitazione di energie che consentono di riscoprire il corpo e la possibilità di stare in relazione con gli altri, anche al di là delle forme socialmente accettate.»
Ci sono vari tipi di estasi nel suo romanzo: quella delle sante anoressiche che sono per Greta un modello di “controllo sulla vita e sul corpo”, l’estasi della politica e della lotta armata che lei rappresenta come “anelito alla dissoluzione”, l’estasi molto carnale e corporea della madre di Greta, Marta, un canto del corpo e molte altre. Qual è il filo rosso che le lega tutte?
«Nel libro sono effettivamente presenti diverse forme di estasi e di tempo estatico, in quanto tali tutte riconducibili all’esperienza di uscire fuori da sé, fuori dalla percezione ordinaria. Scrivendo ho cercato di tessere una narrazione che si spingesse oltre il tempo e lo spazio come li percepiamo normalmente, fatta dall’intreccio e dalla compresenza di fantasie e realtà, di presente e passato, di luoghi geograficamente e simbolicamente lontani. In questo senso ho desiderato realizzare una sorta di cortocircuito spazio-temporale. Allo stesso modo, introducendo i diversi tipi di estasi, ho voluto rappresentare una complessità, descritta dall’abbandono e dal controllo estremi, dalla tensione tra distruzione e rigenerazione, dall’esperienza individuale e dall’apertura al mondo, provando ad aprire degli spiragli sulle possibilità insite in questa complessità.»
Nel racconto che fa degli anni settanta trovo che sia molto presente e importante il punto di vista del bambino. Rende molto bene lo spaesamento profondo della generazione dei bambini nati negli anni settanta, stretti tra nonni spesso severi e “borghesi” e genitori alternativi e libertari. Spaesamento anche di fronte alle “parole dei grandi” a volte incomprensibili, segno dei cambiamenti profondi e delle rotture che quegli anni hanno rappresentato, come ad esempio nel romanzo di fronte alla parola “femminismo”. Come è nato in lei questo punto di vista?
«Sono nata alla fine degli anni settanta e di quegli anni ho raccolto un’eredità che ha condizionato la mia infanzia ma soprattutto la mia adolescenza. Eravamo “alternativi”, vestivamo come negli anni settanta, ascoltavamo la stessa musica, avevamo lo stesso modo di stare insieme e di intendere i rapporti, ma ho sempre avuto l’impressione che molte di queste cose fossero spesso esteriori, funzionali a darsi un’identità riconoscibile. Mi sono trovata ad approfondire la storia e il fermento politico-culturale innescato dal sessantotto perché ritengo che comprendere quello che ci ha preceduto possa aiutarci a collocarci consapevolmente nel presente. Lo spaesamento generazionale deriva probabilmente dal fatto che è stata avviato un processo che ha tolto di mezzo dei punti fermi opprimenti senza però raggiungere la trasformazione sociale annunciata. Di fatto ci siamo ritrovati con nuovi tabù, nuove povertà, nuove solitudini e un orizzonte politico confuso.
Greta costruisce la propria identità fra stimoli contrapposti che non trovano facilmente una sintesi. Gli eventi traumatici e l’isolamento la spingono a lungo a rinunciare alla curiosità per il mondo e per le parole dei grandi capaci di mettere in crisi le sue poche certezze. A lungo Greta ha bisogno di punti di riferimento certi, che trova nella visione dogmatica della nonna, alla quale aderisce per un bisogno affettivo. Accetta così la spiegazione della nonna, prende per buono che le femministe siano “delle streghe che vogliono mandare il mondo alla rovescia”. Ma non per questo il desiderio di conoscenza di Greta si dissolve, è incubato e si nutre aspettando il momento di venire al mondo.»
Nel romanzo ad un certo punto avviene una nascita che è anche una rinascita, diventa possibile quando Greta assume un ruolo materno. Sembra che lei voglia dire che generare vita, entrare nella vita e nel mondo è possibile mettendosi al posto della madre. Inizialmente Greta ha bisogno di uccidere il drago, come la sua omonima santa Margherita, poi si apre ad una possibilità nuova, di integrare il “drago del materno”, l’eredità materna. E questa è una prospettiva molto femminista e sovversiva rispetto alle teorie psicoanalitiche classiche in cui è il padre “a portare nel mondo”. Come si è generata?
«Santa Margherita squarcia il ventre del drago e riesce a liberarsi dalle sue viscere, per questo viene considerata la protettrice delle partorienti. Scrivendo di Santa Margherita e di Greta ho pensato al drago come alla pelle della quale Greta arriva a spogliarsi. Le relazioni affettive che si stabiliscono nella parte finale del libro sono relazioni di sostegno: Greta e Alice, un altro personaggio molto significativo nel libro, sono in un rapporto di reciprocità. Ognuna sostiene la vita dell’altra portando qualcosa di sconosciuto e di generativo. Mi piace l’idea che nessuna delle due assuma un ruolo esclusivamente materno nei confronti dell’altra, ma che si realizzi piuttosto una integrazione tra caratteristiche considerate maschili ed altre attribuite al femminile. È pur vero che Greta può ricollocarsi nel mondo solo confrontandosi con il ricordo del passato e con i personaggi che riportano a lei le vicende vissute da sua madre negli anni settanta. Credo che questo, oltre ad avere a che fare con la necessità di confrontarsi con un modello femminile, integrare l’eredità materna per sentirsi libere di autodeterminarsi, abbia a che vedere con la trasmissione delle esperienze e delle conoscenze da una generazione all’altra, con particolare riguardo alla cultura femminile.»
L’irruzione della vita ma anche al contempo del passato nell’esistenza di Greta rende possibile un’altra trasformazione: da quasi santa a quasi strega. Che significato ha? E, per lei, chi è oggi una strega?
«Greta nel suo percorso nega la materia cercando di assoggettarla: rifiutando il suo corpo, come le sante anoressiche, esprime anche il rifiuto di crescere e di adeguarsi al sistema. Elaborando il suo trauma si riconnette alla vita e al mondo. Una strega oggi è una donna capace di autodeterminarsi, di aprirsi con empatia agli altri e alla natura. Si assume la responsabilità di sé stessa e del mondo nel quale vive. Una strega comprende le voci dei pappagalli e il mistero dei gatti.»
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