Fino al 12 febbraio la mostra di Edward Hopper
ROMA – Intimo, introspettivo, sperimentale: Edward Hopper (1882 – 1967) è uno degli artisti americani del XX secolo più amato dagli italiani. A guardare i suoi quadri – dagli interni dei palazzi ai paesaggi di campagna – si varca l’apparente staticità della tela fino a immergersi nella luce verde dell’epoca di Jay Gatsby. Quella di Hopper è una dimensione suggestiva e profondamente umana, un ritorno a sé stessi attraverso la solitudine dei personaggi, smarriti negli spazi urbani e nella società americana della prima metà del secolo breve, che si avvia verso la massificazione.
Un percorso interattivo – A Roma, nel complesso del Vittoriano, sarà possibile fare un viaggio fra 60 opere del pittore americano sino al 12 febbraio 2017. La mostra, prodotta e realizzata da Arthemisia Group in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York, vuole ripercorrere la cifra stilistica di Hopper dagli acquerelli Parigi, passando per le illustrazioni newyorkesi fino ad arrivare alla solitudine rappresentata con uno studio architettonico della luce. Le tele hopperiane – simbolo di quell’America che lui stesso interpretava, vivendola in prima persona – sono scandite in più sezioni e accompagnate da spazi multimediali in cui il visitatore può disegnare, vedere filmati e divenire addirittura protagonista dei quadri.
Un’arte inspiegabile a parole – Schivo e taciturno, amante degli orizzonti e delle luci riflesse nelle case, Hopper è un Salinger della pittura. Chiuso nel suo studio o all’aria aperta, è riuscito a carpire lo smarrimento umano e la società contemporanea, ritraendo semplici luoghi – condomini, stazioni ferroviarie, boschi – in cui l’individuo è sia asettico che parte integrante. La realtà raffigurata è un silenzio pittorico che si svela in un’altalena emozionale, difficilmente spiegabile: «Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe bisogno di dipingerlo». Allo stesso tempo, però, la precisione è un tratto saliente del suo stile: la casualità apparente nasconde un’attenzione al dettaglio come se si trattasse di un fotogramma.
Il ritorno da Parigi – Nella borghesia del New England americano in cui l’artista si ritrova a vivere, il mito dell’Europa è ben radicato. Sarà soprattutto la Ville Lumière a rapirlo e influenzarlo profondamente. Gli strascichi impressionistici restano ben evidenti anche una volta rientrato in patria, dove comincia ad avere una fortissima influenza nel mondo della fotografia e del cinema. Gli archetipi paesaggistici scelti sembrano degli scatti fotografici, così autentici che riescono a emozionare e affascinare lo spettatore. Il bagaglio europeo lo segnerà moltissimo nella ricerca e nella consacrazione della sua arte: basti pensare all’influenza di Degas nell’opera New York Interior o al dipinto Le pont des Arts.
Comunicazione in primis – Hopper è innanzitutto un illustratore e fa della comunicazione un momento essenziale nella fruizione dell’opera d’arte. In effetti, sembrerebbe quasi che volesse far trapelare il suo universo con dei punti fermi, gli stessi che però non lo fanno comprendere fino in fondo. Dei varchi, quasi simbolistici, che lo spettatore può aprire a metà. Una mediazione, come quella odierna in molti settori (dalla pubblicità al giornalismo), che nasce ancor prima della società consumistica vera e propria. La realtà è contemporaneamente vicina e distante, tanto che la volontà di comunicare il suo mondo diviene ricerca ossessiva e introspezione.
Le tele da non perdere – Fra i quadri proposti ce ne sono alcuni che l’occhio non potrà ignorare e altri ancora su cui varrà la pena di soffermarsi più del dovuto. È il caso di Soir Bleu e i suoi personaggi enigmatici e bizzarri o di Tramonto a Cape Cod dove l’architettura forza il paesaggio naturale, ma anche di Second Story Sunlight, capolavoro misterioso della maturità. Impossibile non rimare incantati davanti a The Wine shop o ammirare Light at two lights, il famosissimo faro iconico della poetica visiva di Hopper, un artista da annoverare a tutti gli effetti fra i classici della pittura del 1900.
Alessio Foderi
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