Date a Leopardi quel che è di Leopardi. Parola del professor Luigi Blasucci

Luigi Blasucci presenta le canzoni di Giacomo Leopardi e incanta l’auditorium di Palazzo Blu

PISA – Altro che Il giovane favoloso di Mario Martone, altro che Elio Germano. Domenica 29 gennaio, nell’auditorium di Palazzo Blu, per la serie d’incontri sulla letteratura intitolata Libri di poesia, Luigi Blasucci ha presentato Giacomo Leopardi proprio come ce lo siamo sempre immaginato a scuola: un grandissimo poeta italiano, con le sue innegabili menomazioni fisiche che gli hanno causato così tante sofferenze al corpo e all’anima, e soprattutto un grandissimo filosofo pessimista.

Luigi Blasucci.

Dopo l’evento inaugurale della rassegna, che si è svolto domenica 13 novembre 2016 e che ha visto Marco Santagata presentare il Canzoniere di Petrarca, stavolta è toccato a un altro grande critico letterario, Luigi Blasucci, docente dell’Università di Pisa e della Scuola Normale, presentare l’opera di un altro grandissimo nome della nostra letteratura, Giacomo Leopardi.

Due nomi che sono stati più che sufficienti per gremire, ben oltre il limite consentito dalla sala, l’auditorium di Palazzo Blu: solo posti in piedi, e per di più alle 11 di domenica mattina, come d’altronde era già avvenuto per il binomio Petrarca-Santagata.

A fare gli onori di casa, il presidente di Palazzo Blu Cosimo Bracci Torsi, che ha moderato quella che è stata una vera e propria lectio magistralis di uno studioso d’altri tempi che non smette mai di insegnare qualcosa.

Una rapida quanto intensa cavalcata, accompagnata – secondo la formula dell’esecuzione-lezione – dalla lettura di Alice Bachi, attraverso cinque tra le canzoni più rappresentative del poeta di Recanati e della sua concezione filosofico-letteraria. A cominciare, innanzitutto, dalla distinzione tra antichi e moderni, che è già presente nella canzone All’Italia, dove leggiamo forte e chiaro il patriottismo leopardiano: qui sono ricordati i giovani italiani morti nelle guerre napoleoniche, accostati ai giovani greci morti nella battaglia delle Termopili.

La canzone Ad Angelo Mai, poi, è importantissima perché pone le basi filosofiche della concezione di Leopardi, la sua visione dell’infelicità dei moderni rispetto alla felicità degli antichi. «Questa canzone ha una cornice patriottica e un nucleo filosofico, epocale» ha spiegato Blasucci. Vi troviamo un Mai che riscopre i libri di Cicerone Della repubblica, e quindi dà nuova vita al dialogo tra antichi e moderni.

Al patriota, però, ben presto subentra il filosofo, in particolare quando parla dell’impresa di Cristoforo Colombo. «Il vero – ha continuato lo studioso – rimpicciolisce le nostre illusioni e fantasie: con la scoperta dell’America non è più possibile fantasticare sul sole che va a riposare nell’oceano al tramonto, o su terre sconosciute abitate da popoli misteriosi». Il vero, quindi, che restringe il nostro orizzonte, di conseguenza rendendoci sempre più infelici.

E il conforto perì de’ nostri affanni

scrive infatti Leopardi in un verso di questa canzone. Una canzone, quindi, a doppio fondo: patriottico da un lato e filosofico-pessimistico dall’altro, una riflessione storica sulla sorte dell’umanità, che si è sempre più allontanata dalle illusioni naturali, dalle fantasie naturali.

L’auditorium di Palazzo Blu durante la lezione di Luigi Blasucci sulle canzoni di Leopardi.

A questo proposito, Blasucci ha portato all’attenzione dei presenti una questione tanto attuale quanto leziosa. L’espressione “pessimismo storico” non sarebbe più giusta, tanto che i leopardiani stessi non la usano più. «Ma è solo questione di parole – ha fatto giustamente notare il professore –: al fondo della concezione leopardiana c’è il negativo, la scoperta metafisica del nulla».

Nel Bruto minore si parla ormai dell’umanità tout court, non più di patriottismo. Bruto, anticesariano, rappresenta anche la morte dell’età antica e delle illusioni, con l’umanità che entra nell’età del moderno, nel dominio del vero, della ragione, dell’infelicità. Resosi conto dopo la battaglia di Filippi di questo cambiamento epocale, in una notte tormentata, dopo una sorta di monologo tragico in cui se la prende con gli dèi, decide di suicidarsi. «L’uomo – questo il pensiero non solo di Bruto ma, come si può facilmente intuire, di Leopardi stesso – non può sperare nella solidarietà degli altri uomini né di nessun dio. Di fronte all’impassibilità della natura non siamo nulla. Quindi, meglio sparire nel nulla».

Invece, rispetto a quest’ultima, «con la canzone Alla primavera retrocediamo un po’». Ritorna la primavera, ma solo quella della natura, non quella del genere umano, quella cioè in cui credeva che la natura fosse animata di esseri misteriosi come amadriadi, fauni, silvani, naiadi e pani che gli tenevano compagnia. Filosofia e ragione hanno eliminato queste illusioni.

Per concludere, l’Ultimo canto di Saffo, canzone nella quale ritroviamo una lamentazione elegiaca e sospirosa. «Non è l’ultima canzone a essere stata composta, ma nei canti compare per ultima perché abolisce completamente la temporalità storica dei precedenti» questa l’interpretazione di Blasucci, che ha continuato: «C’è un’infelicità fuori dal tempo, una tragedia atemporale che viene dopo la tragedia storica degli altri tempi». E inoltre, attraverso la figura di Saffo, appare chiaro che «Leopardi parla di sé per persona trasposta, ed è bravo a non tradirsi mai». Dopo il suicidio di Bruto, dunque, quello della poetessa Saffo. Perché in fondo, così come scrisse Gustave Falubert, anche Leopardi avrebbe potuto scrivere «Madame Bovary c’est moi!»…

Ritratto proto-fotografico di Giacomo Leopardi (anni ’30).

E quindi, altro che Il giovane favoloso, altro che il Leopardi-Germano. Blasucci, lo ripetiamo, ha presentato il poeta dell’Infinito per quello che è stato: un pessimista! E perché voler “riabilitare” a tutti i costi un grande poeta e filosofo pessimista, facendolo passare per quello che non è stato?

Leopardi è questo, e ovviamente è anche quella figura deforme nella persona che suscitava i nostri risolini al liceo. Ma quella stessa figura ha espresso in maniera sublime il dolore che accomuna il genere umano, che ci rende simili, fratelli, appunto umani. Un grandissimo poeta, e titanico il suo grido di dolore nei suoi versi filosofici.

Perché tentare di cambiarlo, addirittura cercando di non parlare più di “pessimismo storico”? Chi può dire di non essere un pessimista? O meglio, chi può dire davvero di non provare, o di non aver mai provato, almeno una volta, l’universo pessimistico leopardiano?

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