“Silence” di Martin Scorsese. Il silenzio dell’anima e della fede

Silence (Martin Scorsese, 2016)

Sono ormai decenni che il cinema di Martin Scorsese si può leggere come un cinema votato agli eccessi. Andando a ritroso nel tempo, The Wolf of Wall Street era un’opera gigante, 3 ore di vero cinema corrosivo costruito tramite eccessi a-morali e lontani dal politically correct. Ancora prima, con Hugo Cabret, aveva usato l’eccesso di amore per raccontare il cinema stesso e ovviamente non sono escluse da questa definizione le opere dello Scorsese classico (Taxi driver, Toro scatenato, Quei bravi ragazzi) e neanche dello Scorsese “eretico” (L’ultima tentazione di Cristo, Fuori orario, Al di là della vita).

Silence, il film uscito in sala il 12 gennaio 2017, ci proietta nel Giappone del XVII secolo. Due giovani padri gesuiti pretendono e ottengono il permesso di recarsi in quella terra ostile verso i cristiani per cercare di ritrovare il loro maestro, Padre Ferreira. Il soggetto è molto lineare, la “mission” (tanto per citare un titolo caro al rapporto tra cinema e padri gesuiti) è quasi impossibile ma ogni cosa inserita tra l’inizio e la fine della pellicola rientra nella volontà di Scorsese e di Shūsaku Endō – l’autore di Silenzio, libro da cui è stato tratto questo film –  di utilizzare l’eccesso (di fede, di speranza, di silenzi, di cecità) per rendere la visione indimenticabile.

L’azzardo di Scorsese di usare Andrew Garfield  (The Amazing Spiderman, Non lasciarmi) come protagonista è un tentativo, a mio parere fallito, di replicare l’effetto DiCaprio. Quale sarebbe l’effetto DiCaprio? Quello di elevare una giovane star, amata da un pubblico mediamente giovane, rendendola adatta ad un pubblico trasversale. Lo spettatore medio, cominciò a parlare bene di DiCaprio soltanto dopo Gangs of New York o addirittura The Aviator. Un’operazione, questa, già fatta da molti registi: basti pensare al Woody Allen che per Anything Else prese Jason Biggs direttamente dal cast di American Pie oppure a David Cronenberg che ha girato i suoi ultimi due film con Robert Pattinson.

Andrew Garfield, che con DiCaprio per adesso condivide solo il lavoro, magari avrà una carriera brillante però ho trovato prematuro il suo utilizzo come protagonista. Sicuramente migliore il lavoro dell’altro giovane missionario, un Adam Driver che ancora ci fa capire l’importanza dei lineamenti anche nel cinema del XXI secolo. Mi torna alla mente il paragone che ebbi modo di fare quando vidi in sequenza Wall Street e il suo sequel Wall Street – Il denaro non dorme mai, entrambi di Oliver Stone, il primo del 1987 e il secondo del 2010. Il primo vive di lineamenti, di volti, di portamento, il secondo di smorfie poco eleganti e di visi (LaBeouf in primis) totalmente fuori luogo. La medesima situazione la viviamo anche in Silence. È come se Martin Scorsese avesse affidato a Garfield un lavoro basato sulle smorfie, risatine o sugli urli di sofferenza mentre a Driver e Neeson altre armi di recitazioni ben più quadrate. Molto bravi e spontanei tutti gli attori giapponesi.

Nel film si nota l’assenza pressoché totale di musica tipica dell’dramma storico hollywoodiano: nessun passaggio chiave viene sottolineato o enfatizzato da una musica di stampo classico e/o morriconiano; tutto è ricondotto al suono della natura e al suono degli strumenti autoctoni. Proprio la natura è un punto essenziale nella struttura narrativa del film. Le forze come l’acqua e il fuoco vengono usati come espedienti narrativi per tratteggiare i fatti più drammatici (le crocifissioni in acqua, le pire incendiate con i seguaci del cristianesimo) ma possono essere visti anche come uno specchio della terra nipponica fatta di acqua e di vulcani.

Martin Scorsese stesso, come tutti sanno, era stato vicino a diventare prete negli anni ’50 e addirittura aveva provato ad entrare alla Fordham University (il collegio dei gesuiti che rappresenta l’anticamera al sacerdozio). Chi si stupisce della tematica così cristiana e spirituale di un film di Scorsese dovrebbe andarsi a ripassare la storia perché il buon Martin era solito dire già negli anni ’70 che «il cinema è un’evasione, proprio come la religione: ci si trova a dare un’interpretazione idealistica della vita, tesa a soddisfare emotivamente le masse». Meglio di lui nessun altro poteva dirlo. Silenzio.

Tomas Ticciati

Tomas Ticciati
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