Il paradosso della tolleranza di Karl Popper

Sir Karl Raimund Popper, nato in Austria nel 1902 e morto a Londra nel 1994, ha un cognome che in inglese significa attrezzo che fa un rumore come “pop”, proprio come un tappo che salta, ma è famoso come filosofo della scienza, per le sue idee liberali e alcuni paradossi; uno di questi ci riguarda da vicino ed è attualissimo: il paradosso della tolleranza. Ci arrivo con ordine e prudenza, perché la questione è spinosa. Ci sono comportamenti umani che appaiono eterni, razzismo, sessismo, xenofobia, problemi che tormentano l’umanità da tempo immemorabile senza che se ne veda la fine. Eppure la maggior parte delle persone sembra desiderare di vivere in una società tollerante, che accetta e perfino promuove punti di vista diversi e libertà di parola. Avere accanto persone che hanno pensieri diversi sembra stimolante. Qui inizia il paradosso. La libertà può essere sempre illimitata? e non c’è un tremendo pericolo nel superare certe soglie di libertà? Il filosofo Popper definì il paradosso della tolleranza nel 1945, nel suo libro La Società Aperta e i suoi Nemici, edito a Londra da Routledge. Il pensiero è chiaro nelle sue parole: «La tolleranza illimitata porta inevitabilmente alla scomparsa della tolleranza. Se noi rivolgiamo tolleranza illimitata anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo pronti a difendere la società dalle offese devastanti dell’intollerante, il tollerante sarà distrutto, e con lui la tolleranza. Non intendo dire con questo che noi dovremmo sempre reprimere le opinioni dei filosofi intolleranti; fino a che siamo in grado di controbattere con argomenti razionali e mantenerli sotto il controllo della pubblica opinione, impedire loro di parlare non sarebbe saggio. Ma dobbiamo pretendere il diritto di farlo, anche con l’uso della forza, quando sia necessario; potrebbe infatti succedere che loro, i filosofi intolleranti, non siano in grado di confrontarsi con noi con argomenti razionali, iniziando a deprecare qualsiasi argomento gli si proponga; potrebbero, anzi, vietare ai loro seguaci di ascoltare ragionamenti razionali, per loro fuorvianti, e insegnare che è meglio rispondere con i pugni e le pistole. In tal caso, dobbiamo rivendicare il diritto, nel nome della tolleranza, di non tollerare gli intolleranti». L’idea popperiana che ci sia pericolo a tollerare l’intolleranza ha origine lontane. Una traccia bella si trova nel detto latino est modus in rebus, tratto dalle Satire di Orazio, a cui seguono le parole sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum. Ossia: c’è una misura nelle cose; ci sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto. La moderazione del saggio è quindi l’intolleranza verso gli intolleranti: ci sono limiti che non si possono superare impunemente. E occorre sanzionare.

In effetti, Popper non dice che le idee intolleranti debbano essere silenziate, il suo paradosso non impone di limitare la libertà di parola. Sono le azioni intolleranti che debbono essere vietate e perseguite da una società liberale; la violenza o l’oppressione devono essere sradicate da una società aperta, anche mediante l’uso della forza. E la forza è quella della legge, che in una società aperta e liberale riconosce i pericoli dell’intolleranza,si deve dare e  far rispettare.Quelli correnti sono tempi in cui vietare l’uso di oggetti, abiti e pettinature che richiamino esplicitamente idee la cui propaganda è proibita per legge rischia di apparire illiberale e quindi scorretto. Il rischio è segnalato dal filosofo sloveno Slavoj Zizek quando fa intendere che questa idea popperiana di tolleranza scivoli nel suo opposto di intolleranza. Una sorta di tolleranza paternalista: ti sopporto finché non mi disturbi troppo, non esageri e non parli con troppe persone. Invece di tolleranza, Zizek suggerisce di usare il concetto di rispetto, ricordando che Martin Luther King, nei suoi discorsi, non ha mai usato la parola tolleranza; sarebbe tremendo dire che i bianchi debbano “tollerare” i neri, meglio l’idea del rispetto e dell’uguaglianza. Le idee di Zizek come quelle di Popper hanno un elevato grado di impraticabilità, in quanto richiedono che le persone attuino comportamenti etici, che non sono quasi mai automatici ed, anzi, sono spesso la base delle divisioni. Appare invece che l’intolleranza sia in aumento anche negli stati a maggior grado e di più lunga storia democratica. Il punto dolente è che il fenomeno non è solo diffuso in ogni parte del mondo ma anche che è dotato di eccessiva capacità di contagio. A quante persone un intollerante si può rivolgere senza innescare un contagio incontrollato? I cosiddetti social media hanno aumentato la velocità di diffusione di idee pericolose? ma su di essi non viaggiano anche le idee tolleranti? e perché si teme che le idee intolleranti prendano il sopravvento su quelle di piena tolleranza? Un timore grande è che gli intolleranti siano in grado di contagiare anche chi abbia una propensione all’intolleranza inizialmente bassa, ma che si impenna facilmente di fronte a fatti inattesi come l’immigrazione e la crisi economica. La storia recente ci insegna che questo è successo, e la cronaca ci dice che continua a succedere.

Di fronte a questa storia inevitabile, i tolleranti si troveranno sempre intrappolati nel dilemma se tollerare intolleranti nel proprio gruppo di appartenenza, o diventare idiosincratici e non tollerare la presenza di intolleranti, preferendo di stare a contatto solo con persone che hanno le stesse idee. Una società è sempre divisa in gruppi, come il mondo è inevitabilmente diviso in stati e nazioni. Gruppi diversi per idee e gusti, composti da un numero di componenti più o meno grande, al cui interno ci sono pochi intolleranti, possono continuare a confrontarsi civilmente e con tolleranza. Il problema diventa grave quando ogni gruppo non è più in grado di controllare gli intolleranti “interni” e gli intolleranti che appartengono a gruppi diversi entrano in contatto: la probabilità che si generino conflitti e che i gruppi vadano incontro alla segregazione aumenta enormemente. La storia insegna anche un’altra terribile cosa: piccoli gruppi di fanatici molto attivi sono stati in grado di destabilizzare le relazioni di convivenza all’interno di una nazione e tra nazioni, generando conflitti di livello mondiale, con morti e devastazioni enormi. L’isolamento dei nuclei inizialmente piccoli di intolleranti in ogni stato o nazione sarebbe la premessa per evitare il contagio e la diffusione del fanatismo delle idee intolleranti a scala più grande. Quando i numeri tendono a crescere il controllo degli intolleranti diventa difficile e il contagio più probabile. Quando i sistemi sociali, come quelli reali, sono di fatto permeabili a influenze esterne che possono rendere ancora più complicato il bilanciamento tra relazioni di tolleranza e intolleranza, possono entrare in crisi, fino alla deflagrazione. I due scienziati sociali, Fernando Aguiar e Antonio Parravano, nell’articolo Tolerating the Intolerant, uscito nel 2013 sul Journal of Conflict Resolution, hanno simulato empiricamente il confronto tra tolleranti e intolleranti. Dalla lettura si ricava che la lezione di Popper sia valida: la strategia di tolleranza zero (il massimo dell’idiosincrasia all’intolleranza) è la più efficace per evitare la segregazione tra gruppi e conflitti tra diversi. La promozione dell’educazione alla democrazia, l’educazione alla risoluzione dei problemi tramite la negoziazione, sono altrettanto importanti, ma non possono essere lo strumento principale. Gli scienziati hanno ragione, ma occorre qualcosa di praticabile anche nella vita di tutti i giorni. Serve inventare qualcosa in grado di destabilizzare e isolare gli individui più intolleranti. Un’idea geniale è proprio quella chapliniana di diffondere il più possibile la notizia che gli intolleranti, i razzisti, gli xenofobi, i sessisti, i dittatori sono buffi e fanno ridere. Quando uno è ridicolo e vuole comandare, prima o poi cade rovinosamente, sepolto da una risata, magari pop.

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