Leggi Razziali: Perdono, tra passato e presente

Ritornando sul discorso

del rettore Mancarella nell’anniversario delle Leggi Razziali

 

PISA – «Solo levando alta nei nostri cuori la fiamma della dignità, solo guardando diritto negli occhi chi cerca di vilipenderci potremo infondere negli altri il rispetto verso di noi stessi (…)». Sono le parole che Naftoli Emdin rivolge nel 1938 ai propri figli. Nato in Russia, emigrato in Italia perché antibolscevico, laureatosi a Pisa in Medicina, collaboratore del giornale repubblicano La Nuova Italia, era stato appena espulso dalla Facoltà. Rafael e Ruben, i suoi figli, venivano espulsi dal Liceo in quello stesso anno. Non importava che fossero membri dei Balilla, non interessava che la loro famiglia avesse scelto di abbandonare la madrepatria per distaccarsi dalla rivoluzione comunista. La scelta delle Università e delle Scuole italiane di obbedire alle Leggi Razziali, attuando l’allontanamento del personale didattico e degli allievi ebrei, era attuata con fermezza – fin troppo – rigorosa.

Proprio per questo la prolusione pubblica del prof. Paolo Mancarella, rettore dell’Università di Pisa, nel corso della Cerimonia delle scuse del 20 settembre, assume una rilevanza particolare. Pronunciato innanzi ai rettori delle Università italiane, alla comunità ebraica pisana e alla presidenza dell’UCEI, innanzi alle autorità cittadine e all’ambasciatore dello Stato di Israele, il discorso si inserisce in una cornice di eventi che ha al centro la nostra città. Nella nostra Pisa – di preciso, nell’allora residenza di San Rossore – il Re e Imperatore Vittorio Emanuele III apponeva il sigillo della monarchia fascista ai decreti che promulgavano le Leggi Razziali italiane. Tali dispositivi consistevano in una serie di Regi Decreti legge che, a partire dal giugno 1938, regolavano l’accesso alle professioni e all’istruzione per i cittadini di razza ebraica. Le norme furono poi raccolte in un Testo Unico, il Regio Decreto Legge n. 1779 del 15 settembre 1938-­XVI.

L’ispirazione essenziale del razzismo italiano e fascista è stato indagato con cura ed attenzione dagli storici riunitisi, il 20 e 21 settembre, in una conferenza internazionale tenutasi proprio presso il Palazzo della Sapienza, dopo il discorso del prof. Mancarella. La prolusione introduttiva del prof. Michele Battini del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere ha conferito la dimensione di senso dell’appuntamento scientifico. Ulteriore appuntamento, presso la Scuola Superiore Sant’Anna, è stato il convegno Vite Sospese. Storie di docenti e studenti ebrei espulsi dall’Università raccontate dagli studenti e commentate dai docenti. Inoltre, sarà ancora visitabile – gratuitamente presso il bastione San Gallo nel Giardino Scotto – sino al 5 novembre la mostra Ebrei in Toscana, XX e ­XXI secolo, allestita in prima nazionale a metà dicembre 2016 a Firenze e successivamente a Livorno. La mostra, che fa tappa a Pisa grazie al patrocinio delle università pisane nel quadro degli appuntamenti di San Rossore 1938, racconta un secolo di vita delle comunità ebraiche toscane, il loro intreccio con la vita intellettuale, socio­economica e politica italiana. Attraverso un itinerario di fonti iconografiche, video e documenti tratti da archivi di famiglia, è possibile cogliere il contributo specifico di queste persone alla vita pubblica nei più vari aspetti, il peso dell’annosa discriminazione presente già prima del fascismo, l’impatto dell’autoritarismo nelle loro esistenze sino alle deportazioni. La Shoah, trattata con cura ed attenzione, è dunque un aspetto – certamente non secondario – da inserire in un contesto di convivenza peculiare di tali comunità, insediate da secoli in alcuni luoghi specifici della Toscana (Firenze, Livorno, Pisa, Pitigliano, Piombino, Rosignano). Il peso della discriminazione che diviene persecuzione, con tratti sempre più violenti, è un dispositivo innegabile con cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i sopravvissuti e i loro consanguinei leggono il mondo. L’organizzazione della splendida mostra è stata curata da ISTORECO Livorno, col sostegno di un comitato scientifico composto dalla direttrice dell’Istituto Catia Sonetti, Barbara Armani del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici dell’Università di Pisa, Elena Mazzini dell’Università di Firenze e Ilaria Pavan della Scuola Normale Superiore di Pisa. Ulteriore appuntamento ancora in atto è il ciclo di proiezioni cinematografiche “Italia anno 5779 – San Rossore 1938”, presso il Cinema Arsenale in vicolo Scaramucci. L’intero calendario, in campo sino al 5 novembre, è disponibile sul sito dell’Università.

Un complesso di eventi di tale portata, dunque, esprime non soltanto una volontà di raccontare che cosa sia avvenuto nell’Italia di fine anni Trenta, ma anche di offrire strumenti per una memoria collettiva critica del passato, capace di porsi in modo diverso rispetto alla condotta delle stesse Istituzioni dei decenni passati. Il discorso del rettore Mancarella, pertanto, può essere letto ed interpretato in tale ottica, tutta interna alla logica delle apologie che, in particolare dal secondo dopoguerra in poi, contraddistingue istituzioni che si sono rese responsabili di atti di discriminazione nel passato.Nel caso delle Università, il rettore ha specificato chiaramente come tale discorso si proponga come possibile – e consapevolmente circostanziato – risarcimento morale verso quelle persone allontanate dal sistema d’istruzione della monarchia fascista. Chi erano i soggetti allontanati? A quale universo di valori, a quale riflessione sulla razza si faceva riferimento per motivare tale discriminazione? La fonte sicuramente più utile è il Manifesto per la razza sottoscritto il 14 luglio 1938 da dieci studiosi: Sabato Visco, Direttore dell’Istituto di Fisiologia Generale dell’Università di Roma e Direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche; Lino Businco, Assistente di Patologia Generale all’Università di Roma; Lidio Cipriani, Incaricato di Antropologia all’Università di Firenze; Arturo Donaggio, Direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell’Università di Bologna e Presidente della Società Italiana di Psichiatria; Leone Franzi, Assistente nella Clinica Pediatrica all’Università di Milano; Guido Landra, Assistente di Antropologia all’Università di Roma; Luigi Pende, Direttore dell’Istituto di Patologia Speciale Medica dell’Università di Roma; Marcello Ricci, Assistente di Zoologia all’Università di Roma; Franco Savorgnan, Ordinario di Demografia all’Università di Roma e Presidente dell’Istituto Centrale di Statistica; Edoardo Zavattari, Direttore dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Roma.

Una precisazioe è necessaria: come rimarcato dai proff. Michele Battini e Adriano Prosperi nella conferenza tenutasi in Sapienza in settembre, la discriminazione ebraica era già un tratto consistente di una serie di politiche addotte in alcuni Stati italiani preunitari. A detta di tali dieci studiosi era necessario che il Regime adottasse finalmente una propria politica razziale.

“La popolazione dell’Italia attuale – scrivevano ­ è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione”. Proprio per questo, il senso italiano del razzismo “vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra­europee (…); questo vuol dire elevare l’italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità”.

Quale ruolo detenevano gli Ebrei rispetto a tale concezione? Ad essi il Manifesto dedicava l’intero punto 9: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”.

Ebrei come vicenda altra, pertanto, esterna all’unica comunità etnicamente omogenea, funzionale a fornire un corpo autentico allo Stato etico. Da qui il senso delle prime parole adottate dal rettore Mancarella: “Ci sono giorni in cui è bene che il presente incontri il passato, oggi abbiamo voluto che fosse uno di questi. (…) Ci sono vite che, a partire da questo luogo, sono state sospese, stravolte, distrutte”. Le Regie Università e il personale accademico scientemente hanno prestato concreta fedeltà alla monarchia fascista, scegliendo di obbedire a dispositivi di legge immorali: è questa la tesi dell’intera prolusione del prof. Mancarella. Le pratiche di allontanamento e i censimenti degli Ebrei e il loro aggiornamento sino ai giorni di Salò, in particolare, hanno fornito ai nazifascisti riferimenti indispensabili per mettere in pratica le deportazioni presso i campi di concentramento. I “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, RDL 1390, sottoscritti dal sovrano in San Rossore, portarono alla sospensione dal servizio di 448 docenti universitari, 727 studiosi di istituti culturali, 279 presidi di scuola superiore. Un numero ancora oggi indefinibile di insegnanti, giovani universitari, allievi di licei. L’Università di Pisa non poteva che essere sede di una cerimonia del genere, nella riflessione proposta dal rettore, poiché ben 290 dei meno di 2000 studenti iscritti all’Ateneo erano ebrei. La seconda comunità ebraica nell’accademia, dopo l’Alma Mater di Bologna. La legittimità scientifica addotta dal Manifesto della razza del luglio 1938 si associa alla condizione di consapevole subalternità con cui il mondo della cultura universitaria aveva accolto il Giuramento di Fedeltà al Fascismo (1931). Non stupisce, pertanto, che negli interventi dei massimi esponenti dello Studio pisano dell’epoca (rettori Giovanni d’Achiardi e Evaristo Breccia) si adottasse un registro linguistico ben noto agli studiosi di fonti della storiografia del fascismo e della seconda guerra mondiale: la retorica della fedeltà allo Stato, il dispositivo dell’obbedienza all’ideologia che incarnava il senso stesso delle istituzioni nazionali.

Il prof. Breccia era quindi perfettamente intelleggibile nella sua fredda disamina circa “la partenza, non deplorabile, di qualche centinaio di stranieri i quali erano ospiti ben accetti, ma che non contribuivano in nessun modo ad accrescere il prestigio della nostra Scuola”. Ospiti. Bene accetti, ma sostanzialmente inutili. Tutta la prima parte dell’intervento del prof. Mancarella si lega alla disamina di alcune biografie di studiosi perseguitati, alcuni di essi periti nei campi di concentramento, alcuni sopravvissuti, tutti trattati con sprezzante indifferenza dalla classe docente dell’epoca. È per tale ragione che assume valore interessante la seconda parte della prolusione, che si interfaccia col senso stesso di un memoriale immateriale della vicenda, trasfigurato nelle scuse. Come espresso con chiarezza da Pier Paolo Portinaro nel suo celebre saggio I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia (Feltrinelli, 2011) in relazione al ruolo della Vergangenheitsbewältigung (giustizia di transizione), la resa dei conti con il passato può attuarsi attraverso quattro sostanziali passaggi: la conoscenza di quanto avvenuto, la definizione di parametri morali e giuridici utili per una valutazione del fatto, una condizione di solidarietà nei confronti delle vittime, il proponimento che tali circostanze non ritornino. Aggiungiamo un ulteriore elemento: è utile – per non dire necessario – un clima generale in cui la memorializzazione di tali passaggi siano effettivamente condivisi nell’opinione pubblica, sottoposta a valutazioni irrimediabilmente cangianti. Un elemento non scontato, in modo particolare nel clima del nostro tempo. Adottando tale schema di lettura, il discorso del rettore Mancarella si propone di dare per assunti alcuni parametri morali, nel contesto di un’Istituzione che è ritenuta, in quanto continua a partire dalla sua formale nascita nel 1343, responsabile della condotta dei suoi esponenti. Solo così si spiega il passaggio per cui “la parola scuse che abbiamo dovuto usare solo per far comprendere la nostra intenzione, è eloquente ma, al contempo, inappropriata e inadeguata. Infatti, che cosa dà a noi, a me, il diritto di pronunciare oggi parole così nette e risolute, com’è necessario a un proposito di risarcimento morale e civile? Niente e nessuno. Quel che penso è che noi, oggi, sentiamo il dovere di farlo pur senza averne il diritto. Il tempo, lunghissimo, trascorso ci dà un vantaggio, non un diritto”.

Il vantaggio è concepito come la possibilità di dover far fronte al “solo” risarcimento morale, al riconoscimento della circostanza passata e della condanna degli atteggiamenti dell’Istituzione e dei suoi membri che motivavano tale approccio discriminatorio con le ragioni “di Stato, di corporazione, di carriera, di quieto vivere, di indulgenza reciproca”. Elementi che non spinsero le Università ad un riconoscimento dei propri errori nel secondo dopoguerra e che rende “troppo facile chiedere scusa”. Da qui si passa ad una dichiarazione materialmente più incisiva e che si associa alla richiesta di scuse: “Ma noi oggi dobbiamo avere la forza di non obbedire mai, di non obnubilare mai la mente per cedere a nuove inique ragioni”. Una frase del genere, pur con i crismi del contesto, assunta nelle sue conseguenze, non è una frase da rettore, da docente universitario, da funzionario di Stato.

Si riprende il motto di don Milani per cui l’obbedienza non è una virtù, nel momento in cui l’atto che ci si propone di fare con la ratio dell’obbedienza non corrisponde ad un assunto morale. E, anzi, contrasta con la morale. In questo c’è tutta la storia politica e culturale del Secolo Breve, la definizione graduale – formale e intellettuale – del concetto dei diritti umani, la prospettiva di norme morali univoche e capaci di trascendere i parametri meramente giuridici. Uno schema di lettura che si può certamente applicare a moltissimi casi ma la cui declinazione concreta nelle vicende storiche risulta sempre contraddittoria, anche nella più onesta intenzione possibile. Nei periodi successivi, Mancarella risponde indirettamente a chi, magari in cuor suo, domandava il senso di un tale appuntamento, decenni dopo gli eventi: mai c’era stata una “manifestazione collettiva, istituzionale, di riconoscimento della vergogna che ebbe luogo”. È vero e, anzi, per molto tempo le istituzioni repubblicane italiane si sono sottratte rispetto all’espressione della colpa della Nazione in merito all’aggressione militare, alle pratiche razziali, alle discriminazioni attuate dalla monarchia fascista in Europa e nelle Colonie. È la lunga vicenda del complesso modo con cui un popolo e la sua opinione pubblica, prima ancora dell’intellettualità, sceglie di fare o non fare i conti con il proprio passato. Magari poggiando il proprio lavacro auto­assolutorio nel mito del “bravo italiano” ­ si veda, a titolo di esempio, il bel saggio Il cattivo Tedesco e il bravo Italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale (Filippo Focardi, Laterza, 2015) – o nel problema concreto della continuità delle Istituzioni statali – a tal proposito, lettura certamente interessante è Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra daò fascismo alla Repubblica italiana (Davide Conti, Einaudi, 2017). Bisogno di restituzione di un senso, di un’esigenza di riconoscimento reciproco e di perdono da parte dei sopravvissuti o dei successori delle vittime, si connettono quindi allo stringente bisogno di moralità: “la moralità degli studenti e dei docenti che allora subirono l’ingiustizia ci guidi nel ricordo, nella riparazione, nella ricostruzione delle virtù civiche oggi necessarie alla resistenza contro tutte le discriminazioni, anche quelle del nostro tempo. Noi non dobbiamo obbedire mai più a ciechi intendimenti che calpestino la ragione e annullino la dignità dell’uomo”. Moralità è dunque dignità della persona umana, nel solco dei principi basilari della Costituzione repubblicana. Moralità è indicazione di un senso condiviso di giustizia che tiene dentro la possibilità del perdono. Moralità è disobbedire, ove la dignità sia calpestata. Moralità è esercizio di giudizio critico anche nei confronti dello Stato e delle istituzioni, passate e presenti. Concetti sicuramente complessi e che non possono essere assunti solo in modo retorico, specie se poi contraddetti nella pratica quotidiana. Da qui il senso di una memoria condivisa, attraverso il programma di San Rossore 1938, base essenziale per un approccio critico verso i poteri autoritari di ieri ed oggi.

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