“Iris”: la fiaba di Mascagni rivive al Teatro Verdi

PISA – Iris, il fiore di Mascagni, condivide la sorte della gran parte delle opere del compositore livornese: condannata all’oblio. Eppure, nella “sua” Toscana questo titolo non è mai veramente uscito di cartellone: pur non contando un numero esorbitante di edizioni, si segnala per una sua certa regolarità di apparizione sulle scene dei teatri di Lucca, Pisa e Livorno. Come ha ricostruito il musicologo labronico Fulvio Venturi Iris e l’aurea tradizione nei teatri di Livorno, Pisa e Lucca» in «Iris. Melodramma in tre atti di Luigi Illica», Fondazione Teatro della Città di Livorno “Carlo Goldoni”, Livorno, 2017), nel circuito dei tre teatri la «sublime ikebana» vanta ventisei edizioni (compresa quella odierna) dal 1902, con una media di due-tre edizioni a decennio.
Acquista quindi un particolare significato la produzione odierna che, oltre a rinnovare una importante tradizione tutta toscana, è dotata di un ampio respiro internazionale che lega i tre teatri al Kansai Nikikai Opera Theater di Osaka, ed è proprio questa prestigiosa coproduzione la protagonista della rappresentazione di sabato 13 gennaio al Teatro Verdi di Pisa dove, dopo quasi esattamente undici anni, fa ritorno Iris di Pietro Mascagni.

Kyoto (Carmine Monaco D’Ambrosia) e Iris (Paoletta Marrocu)

Il primissimo aspetto di questa produzione che si impone allo spettatore è il formidabile impianto dell’Orchestra Filarmonica Pucciniana, che si fa carico del delicato compito di interpretare la partitura mascagnana: ambigua in certe forme, caratterizzata da colori ora iridescenti, ora diafani, nodosa e ritorta nella sua ardita ricerca e sperimentazione sia timbrica sia armonica, costituisce un difficile banco di prova per la compagine orchestrale. Particolarmente riuscite anche alcune delle suggestive pagine sinfoniche, come le danze dell’Atto I (La Bellezza, La Morte, Il Vampiro) e nella splendida Introduzione dell’Atto III. 
Parlando di orchestra, non si può non parlare del suo direttore, il M° Daniele Agiman: grande estimatore di Mascagni e acceso sostenitore di questa sua opera in particolare, ha diretto la misteriosa partitura con gesto sicuro e aggraziato, riuscendo a tirar fuori dai bravi musicisti della Filarmonica Pucciniana sonorità di rara bellezza, pur mantenendo un’ottima coesione drammatica sulla scena. Avrei preferito meno galanterie e più vigore in alcuni punti dell’opera (uno su tutti, il finale del celeberrimo Inno del Sole: il titanico rullo in crescendo di gran cassa, piatti e tam tam era assolutamente inefficace); tuttavia bisogna tenere conto di alcuni momenti in cui la sua direzione ha raggiunto livelli ragguardevoli, ad esempio nel fastidioso e disorientante accompagnamento orchestrale della tentacolare “aria della piovra”, sortendo un effetto sinceramente notevole.

Il padre cieco (Manrico Signorini) e Iris (Paoletta Marrocu)

Anche il cast vocale è stato sicuramente una scelta saggia, in tutte le sue sfaccettature, dai comprimari ai personaggi principali, passando per il coro. A questo proposito, il Coro Ars Lyrica (che in questa occasione fa affidamento anche su un coro aggiunto per il summenzionato Inno), merita uno speciale applauso non solo per l’ottima presenza sulle tavole del Verdi, ma anche per la sua camaleontica capacità di passare con apparente noncuranza dalla ieratica solennità dell’Inno del Sole ai frivoli cinguetii di «Al rio! Al rio!» alle drammatiche scene d’assieme dell’Atto II.

I cenciaioli (al centro Didier Pieri)

Bravo Didier Pieri, interprete del doppio ruolo del Cenciaiolo e del Merciaiolo: in questa seconda veste ha sicuramente lasciato un buon ricordo presso il pubblico con la delicata serenata «Ad ora bruna», perfetta per il suo raffinato timbro tenorile. Onesto il basso Manrico Signorini, la cui voce oscura e pastosa riporta la mente alla sua interpretazione di Sarasto nella Zauberflöte della scorsa stagione, mentre in questa Iris vestiva i panni del Cieco, l’egoista padre della fanciulla eponima. A parte qualche “traballamento” occasionale, la sua prova è stata sicuramente apprezzata, in particolar modo nella truce scena dell’anatema.

Osaka (Denys Pivnitskyi), Kyoto (Carmine Monaco D’Ambrosia), Dhia (Maria Salvini) – Photocredit: Imaginarium Creative Studio

Il soprano livornese Maria Salvini ha sostituito la collega Alessandra Rossi causa indisposizione: non troppo precisa in un paio di attacchi, ha comunque saputo sostenere i suoi ruoli (Dhia e Una Guècha) con grazia e compostezza autenticamente orientali. I mali di stagione non hanno risparmiato nemmeno il protagonista maschile Paolo Antognetti, che nel ruolo di Osaka è stato sostituito da Denys Pivnitskyi: dotato di grande fascino sulla scena e di una buona vocalità flessibile, questo giovane tenore ha fornito un’interpretazione pervasa da impulsività istintive e grande trasporto anche se, in tutta onestà, nel registro acuto la fatica era evidente. Ad ogni modo, come detto poc’anzi, si tratta di un interprete davvero giovane, avrà sicuramente modo di consolidare la propria tecnica e speriamo di aver modo di poterlo ascoltare nuovamente in altri ruoli.

Ottimo il basso-baritono Carmine Monaco d’Ambrosìa nel ruolo dell’odioso Kioto, da lui sapientemente caratterizzato come untuoso e arrogante, nei modi e nella voce: istrionico, esagerato nei modi farseschi e truce quando getta la maschera, d’Ambrosìa ha tratteggiato un efficace ritratto dell’avidità e dell’indifferenza con pochi sapienti tocchi di pennello. Ottima anche la sua vocalità, sempre piena e solida in ogni differente registro, un’autentica sicurezza per gli altri membri del cast. Molti degli applausi finali sono andati alla bravissima Paoletta Marrocu, interprete della sventurata Iris, e giustamente: nelle sue capaci mani la fanciulla giapponese assume uno spessore drammaturgico significativo e la sua slanciata vocalità colpisce quanto un pugnale ben affilato; nessuna sorpresa se la sua “aria della piovra” è stata accolta con un caloroso applauso a scena aperta.
Tuttavia, in questo caso, la palma spetta al regista, il giapponese Hiroki Ihara: la sua mano è evidente in ogni dettaglio, dalla recitazione stilizzata – a tratti enfatica – dei personaggi, alle splendide scene di Sumiko Masuda, per non parlare dei costumi di Tamao Asuka. Tutto riporta ad un’identità che non potrebbe essere più giapponese, più tradizionale. È la mano di Ihara a sostenere, con grazia magistrale, ogni momento della rappresentazione (che, probabilmente, senza una regia di tale livello sarebbe stata assai meno godibile e riuscita). Il suo più autentico colpo di genio è indubbiamente l’Atto III, il più dichiaratamente simbolista: più che scarno nell’allestimento scenico, brilla vividamente di luce propria nella scena dei tre egoismi in cui il regista fa tornare in scena le tre “maschere” ammirate durante il balletto e fa corrispondere ad ognuna di essere la voce di uno dei tre personaggi maschili. Molto efficace anche l’idea della pioggia di petali dal cielo per suggerire l’idea della trasfigurazione di Iris in fiore. Ottime anche le coreografie curate da Rina Ikoma, sempre perfettamente equilibrate ed in armonia con il quadro generale del dramma.

Photocredit: Augusto Bizzi, Livorno

lfmusica@yahoo.com

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