Il racconto dei racconti (Tale of Tales, Matteo Garrone, 2015)
È giugno, e anche per quest’anno, quasi tutti i film che attendevamo sono usciti. Stiamo per entrare nel periodo fiacco in cui si spulciano i programmi dei cinema all’aperto per rastrellare i film che per una ragione o per un’altra ci siamo lasciati sfuggire. È giugno, anche Cannes, giunto alla 68ª edizione, è archiviato. Senza riconoscimenti significativi, il cinema italiano, con i suoi 4 esponenti, non ne esce con le ossa rotte. La nuova uscita di cui parliamo questo mese è il film di un regista che di solito, nelle programmazioni dei cinema all’aperto, occupa il posto del giovedì, tradizionalmente riservato al cinema d’autore. Quest’anno lo troverete di sabato sera, e lui non se ne vergogna neanche un po’.
Una regina ossessionata dal desiderio di una maternità che la natura le ha negato (Hayek), ricorre alle consulenze di un negromante. Venuto al mondo, l’erede tanto agognato cercherà di sfuggire dalle grinfie della madre terribile che vuole separarlo dal gemello illegittimo, nato da una serva a seguito di un’esalazione magica. Intanto, nelle grotte segrete del regno di Roccaforte, tra orge e lussurie, un re libertino (Cassel) è rapito dal canto soave di una vecchia zitella che grazie a un incantesimo assumerà le sembianze di una giovane fanciulla (Martin). La terza storia è quella di un re vedovo (Jones), che nell’accudire segretamente una pulce gigante perde quasi ogni contatto con la realtà. Rattristato dalla perdita dell’animale, indice un torneo per maritare la figlia adolescente, la quale sogna il principe azzurro che le si confa. Il sovrano vorrebbe pilotare il torneo per non avere vincitori che lo privino dell’ultima cosa che gli rimane, un imprevisto però lo costringerà a dare la figlia in sposa a un orco.
Nella recente cinematografia i vari filoni del genere fantastico hanno visto a proprio favore la concentrazione degli investimenti dell’industria cinematografica hollywoodiana. Il progresso tecnico acquisito nello sviluppo di questi generi di successo ha trainato il cinema mondiale con soluzioni nate proprio durante le lavorazioni di film come Il Signore degli Anelli o Avatar. Dopo che le produzioni americane hanno saccheggiato il repertorio tolkieniano, la Bibbia e i miti della civiltà occidentale, temevamo ingenuamente che il pozzo fosse prosciugato. Matteo Garrone, noto principalmente a un pubblico “d’autore” e reduce dai recenti successi di Gomorra e Reality, ha avuto l’idea e il coraggio di investire su un territorio poco battuto dal cinema nostrano. Attingendo dall’opera seicentesca di Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, con un budget di circa 15 milioni di euro è nato un fantasy valido. Realizzato alla maniera di altri film internazionali di genere, e con un cast stellare. È un film che nasce sì per un grande pubblico, ma al tempo stesso è fedele e coerente all’identità artistica e alla poetica dell’autore. È dichiaratamente un film che vuole vendere, e lo fa senza prostituirsi. Dalla lanterna magica di Matteo Garrone esce quindi un affresco senza tempo, un’allegoria pittorica che è testimonianza universale delle pulsioni, dei vizi e delle ossessioni dell’uomo. Un’opera nella quale il regista riesce a fare di necessità virtù con uno studio meticoloso delle locations che lo ha portato a girare il film in luoghi reali italiani che scenograficamente hanno poco da invidiare a Hogwarts e Minas Tirith.
Una caratteristica dell’approccio al cinema di Garrone è la sensibilità. Era il 2008, quando non eravamo ancora abituati alla vita sotto scorta di Roberto Saviano. Gomorra, il film, fu girato in zone pericolose e raccontava una realtà estrema con l’equilibrio di delegare e lasciare ogni eventuale facoltà di giudizio allo spettatore. E così è per questo nuovo lavoro. Oltre all’inconfondibile stile nell’intrecciare storie, che ritroviamo ne Il racconto dei racconti, ciò che è veramente apprezzabile e rende valido il cinema di Garrone è la leggerezza, l’equilibrio nello spazio tra intenzione e interpretazione. Da quello che potrebbe rimanere un personaggio all’interno di una storia come tante, che ci ha appassionati per due ore in un cinema, si potrebbe trarre un saggio antropologico. E così partendo da ogni suo carattere, da Luciano il pescivendolo di Reality, che fa della piazza il suo palcoscenico e sogna il Grande Fratello, alla vecchia scorticata che si trascina per le strade di Roccaforte coi suoi stracci insanguinati, deturpata per inseguire il miraggio di una gioventù e di un’attrazione fisica che non torneranno più.
La lavorazione di questo film ha visto le collaborazioni del compositore francese Alexandre Desplat (Harry Potter, The Tree of Life, Carnage, Grand Budapest Hotel) e del direttore della fotografia Peter Suschitzky (un episodio di Guerre Stellari, Maps to the Stars). Rispetto alle classiche colonne sonore dei film fantasy, la musica fiabesca di Desplat non è testardamente evocativa di un’epoca lontana. Non si percepisce quella ricerca meticolosa di ricostruire le ambientazioni a partire dallo scontato background culturale di genere, che avrebbe appiattito lo sguardo moderno di Basile. Questo non fa che corroborare la forza dirompente di un cinema, quello di Garrone, che sa essere allo stesso tempo spettacolare, esteticamente gradevole e cosa non meno importante, sempre testimone dei tempi e dell’uomo. Povero uomo, sempre fedele alle proprie incoerenze, sa farsi sempre riconoscere, in ogni epoca.
Leo D’Arrigo
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completa, esauriente, interessante, rende bene il film ed il suo regista, invoglia a vederlo di nuovo, rinnova l’emozione dell’ immersione in una realtà che pur così fiabesca e lontana diventa universale perchè immagine dell’uomo sempre uguale, in ogni tempo.Un’ottima recensione, per un ottimo film
completa, esauriente, interessante, rende bene il film ed il suo regista, invoglia a vederlo di nuovo, rinnova l’emozione dell’ immersione in una realtà che pur così fiabesca e lontana diventa universale perchè immagine dell’uomo sempre uguale, in ogni tempo.Un’ottima recensione, per un ottimo film