I colori della pelle sono simbolo di stato sociale. Lo sono anche le sfumatore di tono. Il valore simbolico è talmente forte che, pur con variazioni epocali, rimane sostanzialmente invariato nel tempo. La stratificazione sociale si manifesta anche con le nuance della pelle; all’immediato giudizio dell’occhio la pelle bianca indica il reddito, l’educazione, il quartiere di residenza, e molto probabilmente fa indovinare anche il colore della pelle del coniuge di una persona. Non c’è dubbio che ancora oggi avere la pelle chiara crea un vantaggio sociale. Molte ricerche lo confermano, anche se la prima impressione che si prova appare sufficiente. D’altro canto può essere vero che una persona dalla pelle colorata dia l’impressione di maggiore e più legittima autenticità, ma solo perché viene da terre povere. Anche questo è un fatto impregnato di sottile razzismo. Qui e nel resto del mondo. Anzi, nel mondo sono in crescita le persone che si sottopongono a trattamenti cosmetici e chirurgici per schiarire la propria pelle e modificare il contorno degli occhi e dei tratti somatici ritenuti discriminatori.
Inevitabilmente, nonostante molte belle dichiarazioni, il colore della pelle è un carattere discriminante anche se è solo un fatto materiale. L’abbinamento al concetto di razza e a quello di appartenenza etnica è una costruzione sociale, non legata alle differenze biologiche.
Ma come opera il colore della pelle nel creare discriminazioni sociali? Si comincia con l’assegnare nomi collettivi che in realtà sono etichette sociali. Neri, Gialli, Bianchi, Afro-Americani, Latini, sono parole che sottintendono un meccanismo di divisione sociale. I toni di nero o di bianco possono essere molti, ma la categoria unica è una semplificazione che dà un grado di sicurezza alla catalogazione divisiva. E semplificando, spesso si produce una classifica denigratoria. Si continua a discrminare anche distinguendo i toni nel colore della pelle: più o meno scura, più o meno chiara. I neri più neri spesso guadagnano meno dei neri più chiari. I bianchi più scuri spesso guadagnano meno dei bianchi più chiari. Il Nord e il Sud dell’Italia sono lì a testimoniare queste differenze, senza bisogno di basarsi tanto su dati quantitativi. Per non parlare del Sud e del Nord del mondo intero. Dappertutto, ttichette di colore e sfumature di tono dividono le persone nella stessa direzione: chiaro è meglio di scuro. La potenza dei segnali che provengono dal colore della pelle è talmente grande che tutti noi, nessuno escluso, non ce ne rendiamo più nemmeno conto. Scagli la prima pietra… chi non c’è cascato? Le radici del “colorismo” affondano nel colonialismo europeo verso l’Africa e l’Asia, nel commercio di uomini da far lavorare come schiavi nelle piantagioni di cotone o di caffè. Nonostante il colonialismo storico sia oggi residuale, il suo retaggio come “colorismo” resta quasi intatto. In Italia è purtroppo capitato di sentire dire che una certa ministra di colore sembrasse una scimmia e, quel che è peggio, è capitato anche di sentire molti dire che quella non fosse un’offesa ma un’affermazione oggettiva. Nero è selvaggio, irrazionale, brutto, inferiore; bianco è civile, razionale, bello, e per questo inevitabilmente superiore. Al massimo ci piacciono le persone bianche abbronzate, perché se hanno “preso il sole” significa che non lavorano. Questo è stato detto sciaguratamente anche per Barack Obama, uno dei nostri in fondo, anche se un po’ “abbronzato”. Non abbiamo ancora educato i nostri occhi a vedere se un uomo o una donna neri siano appena usciti da un bagno di sole rilassante. Al massimo, salviamo qualche modella di estrema bellezza. Ma è proprio questo il punto: la pelle nera per essere accettata deve essere veramente bellissima, come quella di Naomi Campbell.
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