La fotografia a colori. Settembre 1953: Life, una tra le più importanti riviste statunitensi di fotogiornalismo, pubblica ventiquattro fotografie a colori di New York del fotografo austriaco Ernst Haas, uno dei pionieri del colore: comincia così una nuova era per l’immagine su cellulosa.
Sono proprio gli anni Cinquanta la culla e il teatro dello sviluppo e della diffusione della pellicola a colori, simbolo di modernità, scommessa di industria ed editoria che, allettati dai possibili ingenti guadagni, promuovono massicciamente la ribalta del nuovo mezzo fotografico. Una scommessa certamente azzeccata, che vede, oltre i problemi tecnici, oltre l’elevato costo iniziale, una grande diffusione della fotografia a colori, che riscuote ampio entusiasmo sia nel lettore medio, sia nel fotografo amatoriale. Entusiasmo certamente non condiviso da tutti: non mancano infatti gli scettici, che considerano la fotografia a colori un simbolo di frivolezza populista, sottolineando la superiorità del bianco e nero, sinonimo di serietà e qualità artistica. Nonostante il diffuso scetticismo tra gli addetti ai lavori, una nuova generazione di fotografi scommette sulla fotografia a colori, esplorandone le possibilità: artisti comeEliot Porter, lo stesso Haas, Saul Leiter, tra i primi, poi William Eggleston, Stephen Shore affermano la validità in campo artistico e documentaristico del colore. Porter lo impiega nella fotografia naturalistica, Haas e Leiter astraggono le forme dell’ambiente urbano, Eggleston sperimenta, influenzato dalla Pop art, un’estetica più “acida”, Shore ritrae il paesaggio americano in modo enigmatico e allestito: la fotografia a colori non tarda a diventare un’arte al pari del bianco e nero.
Quando nel 1961 Franco Fontana, nato a Modena nel 1933, uno tra più importanti fotografi della storia, comincia a fotografare come amatore, rivolge da subito le sue scelte estetiche al colore, di cui diverrà un pioniere.
Fotografare è per il fotografo modenese “un atto di conoscenza: è possedere”. Possedere quella mescolanza omogenea di fotografo e soggetto, che “entra [nell’artista] e si fa autoritratto”, quella fusione tra creatore e creatore, che è poi l’opera d’arte. “Il fotografo” afferma Fontana “si dissolve nelle sue fotografie e diventa lui stesso la fotografia, e si annulla sempre davanti al soggetto che fotografa.”
E quindi il colore. Il colore come canale di un sentimento lirico, il colore come sguardo emozionato sul mondo, il colore come collante tra esteriorità ed interiorità.
Vediamo una fotografia di Fontana [3]: la composizione è verticale, divisa in due parti: la parte inferiore occupata da un campo di fiori gialli, la parte superiore dal blu del cielo, scandito dal bianco di due nuvole compatte, una sopra l’altra. La sottile figura di una collina divide i due emisferi. La scelta della composizione trasforma il paesaggio naturale in un accostarsi di colori, vivaci come al solito in Fontana, un’intersecarsi di forme e sfumature, in un universo immateriale.
Il minimalismo delle forme e della composizione, l’uso di colori accessi, brillanti, vibranti, la ricerca dell’astrazione, il distacco dall’interesse documentaristico del paesaggio saranno le fondamenta dell’opera del fotografo modenese. Ancora un’altra fotografia [4]: pareti omogenei di edifici, sono gialle, rosse, arancioni, grige, poi un tetto a mattonelle, un muro ruvido, spiragli di cielo, qualche altro dettaglio: ombre, un condotto dell’aria, una grata di ferro.
Qual è il soggetto di questa immagine? Ha poca importanza: Fontana piega alla sue “regole” stilistiche anche il paesaggio urbano, lo converte in un puzzle di colori e poligoni, in un gioco di ritmi. Ancora [5]: striscie orizzontali bianche e rosse, un’attraversamento pedonale, una colata nera, forse catrame, le squarta in due, una filo sottile ondeggia come negli ultimi quadri di Mirò: anche l’asfalto diviene un paesaggio.
Paesaggio dell’anima, universo dell’interiorità.
Mirko Ciabatti
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