Lina Wertmüller, giusta misura di stile

I dimenticati: Lina Wertmüller – Tre decadi, tre film

«Per altri potrà persino essere un inferno, per me è un paradiso. Quale mestiere, arte, professione, grado o incarico, ha più fascino della regia cinematografica?»

I dimenticati di Marzo prendono in esame tre pellicole della regista romana Lina Wertmüller: per gli anni ’70 si parlerà di Film d’amore e d’anarchia, per gli anni ’80 Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada e per gli anni ’90 si analizzerà Io speriamo che me la cavo.

Film d'amore e d'anarchia 2Film d’amore e d’anarchia esce nel 1973 e vede la regista proseguire nell’utilizzo della coppia Giancarlo Giannini-Mariangela Melato che già avevano riscosso un gran successo in Mimì metallurgico ferito nell’onore. Il film è ambientato nel 1932 e racconta la storia di Tunin (Giannini), un contadino del nord Italia che, infatuato dalle idee anarchiche di un suo amico rimasto ucciso dai carabinieri, ripiega in quel di Roma con l’obiettivo di assassinare Mussolini. A Roma farà tappa in un bordello dove ad aspettarlo c’è Salomè (Melato), una prostituta d’estrazione anarchica pronta ad accogliere Tunin come finto cugino. La missione fallirà perché l’amore che Tunin scorprirà verso una prostituta di nome Tripolina prevarrà sull’anarchia, ma allo stesso tempo l’amore sarà anche fonte del suo triste destino. Il film mantiene la promessa di rileggere i fatti storici con il filtro del grottesco, vero e proprio strumento ideale che la regista ha sempre usato nelle proprie storie, mischiandolo con le correnti popolari del melodramma e della sceneggiata. Per costruire la fisionomia di Tunin su Giancarlo Giannini – vincitore di una Palma d’Oro a Cannes per questo ruolo – Lina Wertmuller, come racconta nella sua consigliata autobiografia, ebbe una visione: «un gatto rosso. Una di quelle facce piene di efelidi…nacque così quel trucco che prendeva parecchie ore. Ogni mattina si dovevano ricostruire sulla sua faccia una quantità di lentiggini di diversi colori». La perfetta ricostruzione storica della casa di appuntamenti fu opera di Enrico Job (coniuge della regista e da sempre collaboratore nelle scenografie dei suoi film) il quale trovò un edificio settecentesco che tuttavia aveva anche un’aurea rustica perfetta per ricollegarla alla realtà di un’Italia ancora arretrata economicamente.

Scherzo del destino 2Gli anni ’80 della Wertmüller si aprono con Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada. Il film datato 1983 è da considerarsi, a mio parere, il Todo Modo (Elio Petri, 1976) degli anni ’80, ovvero una critica alle istituzioni politiche, pachidermiche, corrotte dell’Italia democristiana. Se il film di Petri presentava un alone mistico-mefistofelico a partire dalla messa in scena, il film della Wertmüller si mostra ai nostri occhi come un vero e proprio “scherzo” come ci indica il titolo. Un’automobile iper-moderna, iper-acessoriata e iper-corazzata si ferma all’improvviso. All’interno di essa c’è il Ministro degli Interni (un Gastone Moschin che recita per tutto il film senza mai usare la voce) e il caso vuole che nei paraggi abiti l’onorevole De Andreis (Ugo Tognazzi), democristiano e in combutta con il già citato ministro per una mancata nomina a sottosegretario. Così l’onorevole invita il ministro nel garage della sua casa per tentare di risolvere l’intoppo ma da quel momento in poi la vita delle persone coinvolte in questo strano fatto sarà turbata e sconvolta in modo tale da far uscire tutti gli scheletri del passato. Wertmüller simboleggia il potere tramite un auto che fagocita le persone, che le ingloba al proprio interno in un rimando bunueliano e antiborghese. Scherzo…funziona per il suo giocare con il potere – e anche con il terrorismo, con un inedito Jannacci – senza però mai essere troppo dogmatico (Sciascia/Petri) ma neanche macchiettistico: una giusta misura di stile, dialoghi intelligenti e grandi interpretazioni per un film da riscoprire.

Nel 1990 ebbe molto successo un libro scritto da un maestro elementare della provincia di Napoli: il maestro si chiamava Marcello D’Orta e il libro Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani. Due anni dopo, Wertmüller ed un grande team di sceneggiatori (tra i quali i soliti De Bernardi e Benvenuti) adattano liberamente il libro per il grande schermo. Il prodotto finale è una deliziosa commedia nella quale un maestro del nord, per un errore grammaticale, viene trasferito in un paesello della provincia di Napoli e si trova ad aver a che fare con una classe di bambini che con la scuola non hanno rapporto idilliaco. C’è chi lavora al bar, chi al mercato, c’è chi viene da famiglie con gravi problemi e c’è chi, come il custode e la direttrice della scuola, si approfitta di questa povertà per non compiere il loro dovere. E poi c’è lui, il professor Sperelli (un delizioso Paolo Villaggio) che diventa progressivamente il guru, il simbolo di un bene ricercato da tutti i fanciulli ma messo a dura prova dall’ambiente che li circonda. Tra poesia, qualche luogo comune sul sud, risate, massime filosofiche e belle interpretazioni infantili (ricorda la Wertmüller che «oltre a imparare ognuno la propria parte, impararono anche quella degli altri») il film riesce nell’intento di portare sul grande schermo una bella storia che, mostrando una piccola parte d’Italia, riesce a ricollegarsi al romanzo popolare di una nazione intera.

Io speriamo che me la cavo 2

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Tomas Ticciati
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